Sara’s speaking

Un viaggio verso la maratona di Londra che è stato un percorso in cui è filato quasi tutto liscio. Fino a che qualcosa ha smesso di funzionare.

Lo sguardo è sempre perso. Londra non è e non sarà più la stessa dei miei ricordi. Il giorno prima della mia partenza per la capitale del Regno Unito, stavo ascoltando un podcast mentre ero in bici ad allenarmi. Durante l’intervista è stata pronunciata la frase “Non conta la destinazione ma il tragitto” che è stata spunto di riflessione per i successivi chilometri. Davvero potevo dire che non contasse la mia destinazione? Contava solo il percorso che mi aveva condotto a Londra? La mia risposta è stata d’istinto NO.

Il mio è stato un viaggio in cui è filato quasi tutto liscio. Fino a che qualcosa ha smesso di funzionare. Ho sostituito le sedute di corsa con le sedute di fisioterapia, cercando di risolvere quell’improvviso problema che mi aveva fermato. Ho dovuto imparare a non allenarmi, e questo è stato l’allenamento più duro. Riposo, nuoto e bici erano le uniche attività che mi erano consentite e che riuscivo a svolgere senza provare dolore.

Sono stati giorni, settimane infernali. Come se non bastasse il lavoro non ha contribuito ad alleggerirmi la mente. Mi sentivo debole, fragile.

A pochi giorni dalla maratona di Londra, Eliud Kipchoge – l’uomo dei record – stupisce a Boston classificandosi 6° sotto gli occhi sbalorditi di tutto il mondo. Ho temuto fosse un segnale, un cattivo presagio anche per me. Purtroppo, tra i tanti, ho anche il difetto di essere abbastanza superstiziosa in certe occasioni. Questa era una di quelle.

Sono partita convinta di aver fatto tutto il possibile. Ho lasciato a terra tutti i pensieri negativi, le paure e le preoccupazioni. Ho allacciato la cintura e ho chiuso gli occhi.

Ho fatto il check di quello che indossavo: qualcosa di nuovo, le FuelCell SuperComp Elite v3 di New Balance, qualcosa di vecchio, la canotta della precedente edizione della maratona, e qualcosa di blu, il cappellino. A meno di mezzo’ora dalla partenza ha iniziato a piovere. Il cappellino con visiera era diventato l’accessorio fondamentale, al pari degli occhiali se ci fosse stato il sole.

Ero in griglia di partenza stipata in mezzo a centinaia di migliaia di persone, riunite per un unico motivo ma spinte da chissà quali motivazioni. Ho iniziato a domandarmi quale fosse la storia della persona accanto a me, che tipo di percorso l’avesse portata lì, quali fossero i suoi desideri, i suoi sogni. E così per la persona davanti, dietro e così via. Così tante persone con così tante storie accumunate da una sola ragione: correre le 26.2 miglia per cui ci si è preparati per mesi. E mentre c’era chi si preparava a correre, c’era chi si preparava a supportare chi avrebbe corso.

I’ve trained for month to hold this sign” (mi sono allenato per mesi per sorreggere questo cartello).

A ognuno il suo allenamento.

Giocarsi tutto nel giro di qualche ora. È sempre stato così per me, fino dai tempi della ginnastica aerobica in cui la “partita” sarebbe durata solo pochi minuti.

Non volevo seguire il pacer ma mi sono ritrovata a seguirlo fin dall’inizio. A volte mi precedeva, a volte correvamo affiancati, a volte l’ho preceduto io, ma abbiamo corso insieme fino al trentesimo chilometro.

Non scoppiare, non scoppiare

Arrivata a quel punto c’era il rischio di scontrarsi con il famigerato muro. Ma non c’è stato nessuno scoppio né scontro con nessun muro, reale o immaginario. Tutt’altro. Ho levato il freno a mano che mi aveva consentito di arrivare nel pieno delle mie forze fino a quel punto, ho lasciato dietro di me il palloncino delle 3h30 e ho iniziato la mia maratona. Perché la vera maratona inizia dopo il trentesimo chilometro.

Avevo deciso che sarebbe stato fondamentale mantenere la lucidità mentale. Perché le gambe ti fanno avanzare, ma la testa ti fa andare oltre.

Ho bevuto a ogni ristoro senza saltarne nemmeno uno. Sono stata attenta a integrare sempre e con precisione. Il resto delle energie me lo ha trasmesso la folla presente. Inutile cercare di spiegare quanta emozione e quanta carica sia stata in grado di trasmettermi attraverso musica dal vivo e DJ set, urla, schiamazzi, trombette e vuvuzela. Chi se lo sarebbe mai aspettato da Londra. Te lo aspetti da New York, da Valencia ma Londra non è stata per niente da meno, anzi.

31, 32, 33. Mi continuavo a ripetere che mancavano ancora troppi chilometri alla fine per fare qualsiasi mossa azzardata.

34, 35, 36. La respirazione si era fatta più impegnata, ma le gambe giravano ancora bene.

37, 38, 39. Era il momento, o la va o la spacca.

40, 41. Ho raccolto tutte le energie residue che mi erano rimaste in corpo e le ho messe a disposizione dell’ultimo chilometro e degli ultimi metri che mi erano rimasti da correre.

42.195m

26.2 miglia

3 ore 26 minuti e 55 secondi

É PB Londra, è Personal Best!

È un tempo che racchiude molto più che una successione di numeri. È quello che rappresenta per me che gli attribuisce valore. È l’essere riuscita a guidare il mio corpo esattamente nella direzione che volevo, aver raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissata e per cui avevo lavorato in questi mesi. Quello che conta è proprio la destinazione del mio viaggio. Il tragitto che mi ci ha condotto, con tutti gli intoppi e gli imprevisti, conta fino a un certo punto. L’unica cosa importante è essere riuscita a condurre a Londra la gara perfetta.

Londra non è e non sarà mai più la stessa dei miei ricordi. Perché da oggi Londra sarà legata indissolubilmente al ricordo di questa splendida maratona che non è più solo un bel sogno, ma una magnifica realtà!

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