È successo durante una mattina qualsiasi, un allenamento come tanti. La testa era a posto, le gambe giravano nel modo giusto e mi sentivo in equilibrio con il mondo: non volevo fare altro che correre. È stata quella la mattina in cui mi è venuta l’idea di preparare la mia prima maratona.
Il ricordo di quel momento è piuttosto confuso, ancora oggi non ho ben chiaro il percorso che stavo facendo, com’ero vestito, le condizioni atmosferiche. C’è solo un frammento che sono riuscito a salvare: mentre percorrevo le strade della mia campagna salentina, davanti a me si proiettavano le immagini del ponte di Verrazzano, dell’East River, del Central Park.
Davanti a me c’era la maratona di New York.
Gli aspetti logistici mi hanno poi spinto a scegliere Roma come battesimo dei miei primi quarantadue e centonovantacinque, eppure durante la preparazione, a ogni allenamento, il pensiero andava almeno una volta a New York. Come se ci fosse un’attrazione magnetica verso quella città, quella gara. Forse è una voglia che dipende dalla popolarità o dal fascino. So soltanto che da quella mattina non ho mai smesso di pensarci, come una dolce ossessione.
Io scrivo. Lavoro con le parole, tutti i giorni. Per me andare in libreria o al supermercato è più o meno la stessa cosa. Quando è entrata la corsa nella mia vita è stato praticamente immediato scriverci su, cercare le parole per mettere insieme tutto quello che mi succedeva lungo la strada, fermare alcuni momenti, trovare ispirazioni, fino ad arrivare alla consapevolezza che scrivere della corsa è il modo migliore che conosco per incontrare una mia parte sincera.
Scrivere su Runlovers è dare voce a questo incontro.
In libreria a cercare un altro tipo di cibo
Scrivo su una rubrica divertente paradossale già nel nome, si chiama Oggi non corro, perché c’era quest’idea di parlare della corsa in un modo diverso, raccontando come questo sport sia diventato anche un’ispirazione (e spesso protagonista) per libri, film, serie e documentari. Ho iniziato con un articolo su Forrest Gump (punto di partenza imprescindibile) e per il secondo capitolo ho fatto quello che faccio tutte le volte che sono in cerca di idee: entrare in libreria.
Non so se capita anche a voi, ma io quando scorro i titoli lungo gli scaffali di una libreria tendo sempre a soffermarmi su alcuni libri che ho già letto, come se fossero delle presenze rassicuranti che mi fanno sentire a casa. C’è Il signore delle mosche di William Golding, libro che ho amato tantissimo. Provo a vedere accanto, magari per leggere qualcosa dello stesso autore. Un libro celeste, il titolo è Il maratoneta e l’ha scritto William Gold… man. William Goldman. Lo afferro come se fosse l’ultimo libro da salvare prima dell’Apocalisse, guardo la trama in quarta di copertina e, in maniera confusa, il mio cervello fotografa frasi sparse: studente di storia, film interpretato da Dustin Hoffman, noir, Bikila, sta preparando una maratona, la maratona di New York.
La mia ossessione che ritorna. Ci metto poco a realizzare che quel romanzo sarà l’oggetto del secondo articolo per Runlovers.
Quindi possiamo procedere con Oggi non corro. Buio in sala.
È meglio il film o il libro?
Il maratoneta di William Goldman è una di quelle rare opere che sfuggono al quesito “è meglio il libro o il film?”, infatti nel passaggio dalla parola scritta all’immagine si nota una scelta piuttosto inusuale nel mondo di Hollywood: scrittore e sceneggiatore sono la stessa persona.
C’è un giovane studente di storia, il suo nome è Babe (interpretato da un sontuoso Dustin Hoffman) e ha un sogno: correre la maratona di New York. Sogno che, durante i suoi allenamenti nell’East Side, si mescola all’ossessione di Abebe Bikila, suo idolo, capace di vincere la maratona alle olimpiadi di Roma nel 1960 correndo l’intera distanza della gara senza scarpe.
Come quasi tutti gli iscritti a New York, Babe non vuole certo allenarsi per vincere la gara, l’importante è tagliare il traguardo. Nonostante l’aspetto un po’ trasandato, che lo porta a correre con una felpa sgualcita piena di buchi, Babe è meticoloso, coriaceo. Segna tutti i tempi dei suoi allenamenti su un quaderno, ingaggia brevi sfide al parco con altri runner e si lascia scivolare di dosso le prese in giro dei vicini di casa ogni volta che lo vedono correre.
La corsa, per lui, si presenta come un ambiente protetto. Ma il resto è traballante, insicuro. Il protagonista si ritrova da solo in un appartamento di New York, suo padre (morto suicida) è stato una delle tante vittime del maccartismo e Babe vorrebbe riabilitarne la memoria preparando una tesi di laurea sulle tirannie. L’unica presenza familiare della sua vita è quella del fratello Doc, elegante affarista nel ramo del petrolio che, in realtà, è un agente dei servizi segreti.
È proprio la doppia vita di Doc a inghiottire Babe in un vortice assurdo abitato da ex nazisti, servizi deviati, diamanti, cassette di sicurezza e false identità. E la corsa c’è, la corsa è la costante invisibile della storia che aiuta Babe a ingaggiare una lotta al limite della sopravvivenza con i nemici di suo fratello. Il maratoneta, infatti, è anche noto per aver ospitato una delle scene più cruente della storia del cinema, che portò il regista John Schlesinger a intervenire pesantemente in fase di montaggio, tagliando diverse inquadrature della tortura subita da Babe per mano di un dentista.
La drammaticità della famosa scena del dentista, racchiusa nelle pagine di Goldman e poi mostrata nel film, è di un’intensità pazzesca, il dolore fisico diventa il mezzo per piegare un uomo qualunque inconsapevole di trovarsi in una situazione più grande di lui. Ma Babe non è un uomo qualunque e lo dice chiaramente in una delle battute più belle del film: io sono un maratoneta, quando corri quaranta chilometri non pensi al dolore.
Da presenza invisibile ecco che la corsa si trasforma in prezioso alleato, in grado di spostare le soglie di uomo, plasmare nuovi limiti e capacità, diventare salvezza.
Con una trama che in diversi passaggi appare come la figlia di Intrigo Internazionale di Hitchcock, Goldman realizza una grande storia su un “eroe per caso”, costretto dalla circostanze a cambiare, crescere, chiedere di più a se stesso. E correre.
Certe storie possono succedere solo a New York.
E con i maratoneti funzionano anche meglio.
Andrea Martina