Ho come il sospetto che il mio rapporto con l’attività fisica, almeno fino a un certo punto della vita, sia simile a quello di molti altri, magari anche a te che leggi.
Fino all’età adulta non la potevo sopportare. E per “età adulta” intendo 30 e passa anni. L’idea di dedicare qualche ora della settimana allo sport mi faceva inorridire e non ho mai amato il calcio, quindi non era contemplato neanche il calcetto settimanale con gli amici. Niente di niente.
Come è andata la storia è chiaramente diverso: se sono qui a scrivere di corsa e tu a leggere è probabile che, a un certo punto, qualcosa sia successo. Quello che mi è successo l’ho già raccontato qui ma quello che oggi mi interessa raccontare – o meglio, “indagare” – è perché io sia arrivato a non concepire che lo sport potesse far parte della mia vita. Non dico odiarlo, intendiamoci: dico che io e lo sport ci ignoravamo.
Come in una seduta psicanalitica
Cerchiamo ora di autoipnotizzarci e ricongiungiamoci con il nostro io giovane. Oppure, senza farla tanto difficile, andiamo con la memoria alla scuola: ricordi la prima lezione di “ginnastica” che facesti? Al tempo si chiamava ancora ginnastica, o educazione fisica (ora ha cambiato molti nomi – sembra che una delle peculiarità delle riforme della scuola sia cambiare nomi alle materie, senza cambiarne la sostanza): ne ho qualche vago ricordo ma mi pare consistesse nel riscaldamento e in noiosissimi giochi con la palla e poi in una partita di qualcosa. Un’ora alla settimana alle elementari e alle medie e forse due alle superiori, ma potrei sbagliarmi.
Nell’organizzazione della vita scolastica c’erano le materie classiche *e poi* c’era educazione fisica. Il sistema faceva di tutto per farla apparire come una cosa che non c’entrava niente con il resto. Di certo per il tipo di attività coinvolta non aveva niente in comune con matematica o italiano: la si faceva in piedi, correndo e saltando, mentre le altre materie erano somministrate come amarissime medicine, ma stando seduti.
Inoltre era fatta in maniera sbagliata, fin dal principio. Dipendeva dagli insegnanti (sono certo che molti ne abbiano avuti che invece hanno saputo appassionarli all’educazione fisica, ma non fu il mio caso) e da come il sistema educativo proponeva questa materia. O “imponeva”, dovrei dire: non veniva insegnata come un gioco alle elementari e continuava svogliatamente negli anni successivi a essere una parentesi nella settimana in cui dovevi convivere con individui seminudi e maleodoranti. Sempre per una volta alla settimana.
Se le materie fossero i prodotti della scuola – cosa che, in un certo senso sono – direi che il marketing scolastico le vende malissimo. Compreresti qualcosa che sei obbligato a comprare e rispetto al quale non hai alternative? No, certo che no.
Ma la scuola non è un’azienda, per fortuna. Il che non toglie che avrebbe potuto sforzarsi di farsi piacere un po’ di più. Per esempio insegnando una cosa che c’ho messo decenni a capire: l’attività fisica non è un passatempo e non è – o non dovrebbe essere – qualcosa che puoi decidere di non fare perché non incide positivamente sulla tua vita. Perché lo sport ti fa solo bene e può e anzi deve essere parte integrante della vita di ognuno. Non lo dico in termini impositivi, ovviamente. Dico solo che quando lo capisci ti si aprono scenari impensati, e cambi, generalmente in meglio.
Perché lo sport è stato venduto male?
Per svariati motivi, e non dimentichiamo che noi pensiamo per modelli, imposti in modo più o meno subdolo dalla società di cui facciamo parte.
Prendiamo ancora una volta l’educazione fisica. Perché la si fa? Perché di sì. Eppure sarebbe così bello e utile che l’insegnante provasse a spiegarti perché ha senso farla e quanto ti aiuta a usare meglio il cervello, a quanto il fisico lavora in simbiosi con il cervello quando si muove, a quali e quanti benefici trae da una corsa o da una partita di tennis.
Ecco: il cervello. L’altra parte di te che, ti è stato spiegato, puoi pure lasciare in spogliatoio quando entri in palestra. E qui interviene un altro modello condizionante, questa volta proveniente dalla società: quello dello sportivo che, mediamente, ha doti fisiche ma un cervello poco sviluppato (il calcio non ha molto aiutato a sfatare questo mito, purtroppo). Eppure si tratta di un modello, riproposto in varie forme ma sostanzialmente sempre simile: lo sportivo è quello che ha doti fisiche ma non ha una gran mente. E nessuno che ti spieghi che ne ha eccome, e sviluppatissime, solo che non si misurano con le materie che non conosce ma con la capacità di usare la mente in modo strategico, con visione, prevedendo sviluppi e conseguenze di un’azione.
L’educazione
La mia proposta è quella si smetterla di chiamarla educazione fisica (ora si chiama “attività motoria”, le hanno tolto qualsiasi connotato sia educativo che formativo dal punto di vista mentale) e di chiamarla “educazione”, e basta. O “educazione in movimento”.
Un’ultima cosa a difesa degli atleti. L’educazione “classica” ci ha insegnato a usare il cervello come un archivio in cui depositare conoscenze. Molto raramente ci ha spiegato come usare il cervello. Lo sportivo sa come usarlo, perché ha imparato in maniera intuitiva o ragionata che il suo corpo non gli basta e che non è altro che uno strumento al servizio della mente. Il corpo non fa strategie, il corpo non ha visione, il corpo non vince o perde. La mente lo fa, usando il corpo, almeno in ambito sportivo.
Eppure abbiamo imparato a considerare gli sportivi o come quelli che guadagnano milioni senza in fondo meritarli o come quelli che fanno quel che fanno perché non hanno il cervello per fare altro.
Questa non è però una difesa dello sportivo senza contradditorio. E non è nemmeno un attacco frontale al sistema educativo. L’educazione degli individui è centrale e sacrosanta. Credo però che possa essere fatta meglio, non distinguendo più corpo e mente ma spiegando semplicemente che sono un’unica cosa, una macchina stupenda costituita da due parti che lavorano in armonia.
Che individui felici potrebbe formare la scuola se non si insegnassero materie ma si insegnasse ad amarle, prima di tutto?
Come farlo? Insegnando a usare il cervello e non a riempierlo di nozioni. E, indovina un po’, cosa insegna a usarlo? Esatto: lo sport.
Ginnastica alle medie. All’epoca c’erano due insegnanti, una donna per le femmine e un uomo per i maschi. Lei molto carina (vaghi ricordi) lui sovrappeso* fancazzista.
Il compito di noi maschietti era, a rotazione, di creare degli esercizzi da fare mentre lui, il fancazzista sovrappeso, disturbava la lezione delle fanciulle chiacchierando con la loro insegnante. Questa è stata la mia esperienza di ginnastica alle medie
Per fortuna alle superiori l’insegnante/istruttore era di un altra categoria.
* il problema non era il sovrappeso, ma il fancazzismo
Confesso di essere stato un po’ ingiusto verso il mio professore al liceo. Intendiamoci: era bravo ma io non avevo nessuna voglia di fare niente e quindi, essendo lui appassionato di fotografia, mentre gli altri facevano una partita a qualcosa, io me ne stavo in panchina con lui a parlare di bianco e nero e tecniche di sviluppo. Quindi, per motivi diversi, lo ricordo con molto affetto e gratitudine.