Le storie si raccontano usualmente partendo dall’inizio e procedendo poi verso la fine. Quando si è molto bravi a raccontarle si può partire dalla fine e andare al contrario o si può raccontarle anche balzando da un momento all’altro della vita di una persona. Per molti di noi, per la maggior parte, la vita ha uno sviluppo lineare: una cosa porta a un’altra cosa, che porta a un’altra cosa ancora. Così ci evolviamo, circa.
La storia di Diane Van Deren può essere raccontata partendo da diversi momenti della sua vita, perché Diane ha vissuto diverse vite. O meglio: ha vissuto e continua a vivere una sola vita – la sua – solo che per lei è cambiata una dimensione fondamentale della vita di ogni essere umano: il tempo. Quando la tua percezione del tempo viene alterata può capitarti di vivere una dimensione diversa della tua vita all’interno della tua stessa vita. A volte può capitarti di diventare anche una delle più forti ultra runner del mondo. Ma partiamo dall’inizio.
La crisi
È il 1988 e Diane ha 28 anni. Aspetta il suo terzo figlio ed è in macchina con la madre. Sente qualcosa di mai provato prendendo un oggetto dal cruscotto. Perde i sensi. Si risveglia in un letto d’ospedale e un medico le dice che ha avuto una crisi epilettica. Non ha mai nemmeno sentito quella parola, non sa cosa significa. Fino a quel punto della sua vita è stata una buona atleta: ha giocato a tennis e si è mantenuta in forma. Forse questa predisposizione per l’attività sportiva le fa pensare che muoversi possa servire a qualcosa per controllare la sua malattia perché ha notato che l’unica cosa che riesce a evitarle le crisi epilettiche è la corsa e soprattutto perché nessuna cura, nessuna dieta, niente di niente sembrano contrastare quella che sembra sempre di più una sentenza definitiva. Ha però imparato a prevedere le crisi perché sono sempre precedute dalla cosidetta aura, una fase in cui i sensi sono alterati. Quando le capita indossa le sue scarpe da running ed esce a correre finché tutto non ritorna sotto controllo. La corsa è la sua arma contro l’epilessia, almeno per un certo periodo. Corre e corre, letteralmente fuggendo alle sue crisi epilettiche, all’inizio per un’ora, poi due, poi fino a 4-5 ore di fila.
Finché dura, perché dopo qualche anno le crisi iniziano a fregarla: ora arrivano senza annunciarsi, senza nemmeno darle il tempo di infilare le scarpe e di iniziare a scappare.
Da una crisi epilettica si può non uscire, nel senso che si può anche morire. Stai facendo un bagno e te ne viene una: affoghi. Guidi e te ne viene una: puoi morire in un incidente. Diane istruisce i suoi figli a controllare spesso se lei sta bene. Gli insegna fin da piccoli a guidare perché, sai mai, magari le viene una crisi mentre li porta a scuola e allora sanno cosa fare, sanno come portarla in ospedale.
Ora la fuga non basta più e la corsa non è più un’arma contro la malattia, perché quell’arma Diane non ha neanche il tempo di impugnarla.
Lobotomia
È una parola che fa paura: “lobotomia”. Eppure è l’unica soluzione che, secondo i medici, potrebbe dare a Diane qualche chance di tenere sotto controllo le crisi. Ma per praticarla devono individuare la parte di cervello interessata dalle crisi. Per riuscirci la ricoverano in attesa che gliene venga una per potere capire dove si genera nel suo cervello. Le riempiono la testa di elettrodi e aspettano. Finché la crisi arriva, violenta e potente. Diane si contorce e ingoia la lingua ma i medici riescono a individuare la porzione di cervello in cui si è scatenata: è il lobo temporale destro, nella sua porzione coinvolta nella memoria e nella percezione del tempo.
Diane viene operata e, a parte dei tremendi mal di testa all’inizio, pare che il problema sia risolto: dopo un anno non ha più crisi. Un anno intero senza crisi era qualcosa di mai provato per lei. Riprende a correre e prova anche a gareggiare: quasi per gioco e sfida si iscrive a una 50 miglia. E la vince. Allo stesso tempo però nota che qualcosa non va, specie nella vita quotidiana. Non se ne accorge nemmeno lei a dire il vero: sono i suoi figli e sua madre e i suoi amici a capire che qualcosa non quadra. Diane si dimentica gli appuntamenti, dimentica di andare a prendere i figli a scuola, non ricorda di aver incontrato qualcuno poche ore prima. Una delle funzioni che risiedono in quella parte di cervello che le è stata rimossa è infatti la memoria a breve termine, oltre al riconoscimento degli oggetti, tipo le mappe. Come può quindi una ultra runner che corre per centinaia di miglia orientarsi senza mappa? Diane inventa uno stratagemma: porta con se dei nastri rosa e, quando si trova a una biforcazione e non è sicura della direzione, ne lascia per terra uno. Se dopo un po’ ha la sensazione di non essere sulla strada giusta torna indietro fino al nastro e cambia strada. Le succede alla Yukon Arctic Ultra 300 nel 2009: va fuori strada e accumula un ritardo di due ore. E la vince comunque.
La percezione del tempo
Diane, è ormai chiaro, ha problemi di memoria, specie a breve termine. Se la senti parlare ricorda dettagli di anni prima e il libro della sua vita per lei è perfettamente leggibile. Il problema è quello che le accade nell’immediato: non sa dirti con precisione cosa ha fatto qualche ora prima o anche poco fa. La memoria ha bisogno del tempo per collocarsi: il tempo le dà le coordinate, la situa in un prima e un dopo. Cosa succede se non percepisci più il tempo come la maggior parte delle persone? Vivi in una dimensione sospesa, in cui non c’è un prima e un dopo, un passato e un futuro.
Diane sviluppa una resistenza alle ultradistanze che ha qualcosa di mitico e il motivo lo spiega lei stessa: “Se ho un vantaggio sugli altri atleti è il tempo: io mi perdo nel tempo. Alla Yukon ho corso per 10 giorni di fila ma lo so perché me l’hanno detto, non lo percepivo mica. Io non sapevo quanto esausta ero perché, semplicemente, non me lo ricordavo”.
Diane corre solo sentendo il suo ritmo perché non avendo ricordi immediati non riesce a collocarsi nel tempo. Questo le permette di superare uno degli ostacoli più grandi che ogni runner conosce: appunto, quello del tempo. Lei non corre contro il tempo: lei lo ignora e, facendolo, riesce a superarlo.
Ricordi come, dopo le prime crisi, l’unico modo per fronteggiarle fosse sfuggirgli correndo? Ora Diane non fugge più: potrebbe correre contro il tempo ma ha scoperto involontariamente che il suo più fiero avversario non erano il prima e il dopo, non erano la partenza e l’arrivo: era come li percepiva e come si collocava nei loro confronti.
Non percepirlo significa, in termini pratici, non considerarlo: parte della fatica fisica deriva dal condizionamento della mente che sa – o si convince – che dopo aver corso un certo tempo, il corpo deve essere stanco. E se si trattasse solo di una percezione e non della realtà? Se la fatica fosse una funzione del tempo e non dello sforzo fisico? Diane ci lascia con queste domande, che lei non si pone nemmeno. Lei ha da sempre una risposta: correre.
(Dal podcast Radiolab “In the running” – Photo dall’account twitter di Diane Van Deren)
Grazie per aver condiviso questa bellissima storia
Che piacere! Grazie a te Davide :)