Tutto il running in 7 minuti (compreso il senso della vita)

La sequenza di corsa di Forrest Gump è una delle più famose del cinema: perché parla del senso della vita

La famosissima sequenza di corsa di Forrest Gump dura sette minuti scarsi. Anzi meno, a seconda che la si guardi nella versione italiana o in quella originale.
Non ci avevo mai pensato e sinceramente non mi ero nemmeno mai posto il problema, anche perché molti la ricordano solo per gli ultimi fotogrammi su quella famosissima strada, nella Monument Valley nello Utah. Una strada così famosa che quando la vedi in foto – anche se non c’è lui e se non è quel famoso fotogramma – ha qualcosa di familiare. Magari non ti ricordi dove l’hai vista ma l’hai già vista. È su quel lunghissimo rettilineo in mezzo a un deserto che Forrest, con la barba e i capelli lunghissimi dopo aver corso ininterrottamente per 2 anni, 3 mesi, 14 giorni e 16 ore finalmente si ferma e con lui il gruppo che lo segue. Sono i suoi seguaci, letteralmente, perché in quegli anni Forrest è diventato per loro una specie di santone: non dice niente, corre e basta e forse il fatto di essere così enigmatico fa credere alla gente che lui abbia capito tutto e che sia sul punto di rivelarlo al mondo. Quindi lo seguono, per essere i primi a sentire le parole del santone, o per finire magari illuminati come lui.

Ma la sequenza, dicevo, dura 7 minuti ed è un prodigio e un manuale di come si racconta una storia. In questo caso una storia nella storia, dato che la parentesi in cui Forrest Gump diventa un runner è una storia fra le tante storie su cui quel film è costruito.

Una storia sul running

Per capire meglio la forza di quella storia nella storia bisogna andare indietro di quasi 7 minuti, all’inizio dell’intera sequenza. C’è Forrest seduto sul portico di casa che guarda in un punto indefinito. A un certo punto si alza e inizia a correre lungo il viale che conduce a casa sua. “Quel giorno, non so proprio perché, decisi di andar a correre un po’”.

Le informazioni importanti qui sono due: non solo “Decisi di andare a correre un po’” ma soprattutto “Non so proprio perché”.
Ecco perché la sequenza di corsa di Forrest Gump è una pietra miliare non solo nella storia del cinema ma anche in quello della corsa e, lasciamelo dire, della società e della vita. Ma ci arrivo.

Nei minuti che seguono Forrest corre. E corre. E corre ancora. Mentre corre incontra persone e queste gli chiedono in continuazione perché lo fa. Una vecchietta seduta al suo fianco sulla famosa panchina gli chiede “Quindi lei corre e basta” e lui le risponde “Già!”.

La curiosità cresce sempre di più finché ne parla prima la stampa e poi la televisione. Quest’uomo che corre e basta suscita la simpatia e il rispetto di chiunque. I giornalisti (correndogli dietro) gli chiedono se lo fa per l’ambiente o per protestare per questo o quello e lui pensa solo che la gente non riesce a credere che uno corra perché gli va di farlo. E si meraviglia. Forrest è uno che sa meravigliarsi di qualsiasi cosa, come un bambino. E come un bambino fa cose inutili, non produttive. Lui non ha uno scopo, se non correre. E basta.

Per questo suscita così tanta curiosità: chi lo segue o chi si informa sui progressi del suo infinito viaggio ne è attratto perché vede in lui il bambino che si è dimenticato di essere. Tutti riconoscono vagamente in lui quello che erano ma non vi si identificano. Non ancora almeno: per tutti lui è quel tipo un po’ bizzarro – molto bizzarro – che corre e basta.

Un ritratto della società

A rendere ancora più perfetta questa sequenza c’è un sottotesto di critica ironica e feroce della società: quella consumista e capitalista che ha come unico fine il profitto ma che, anche ottenendolo, resta sempre insoddisfatta. Per questo cerca risposte altrove, anche in un tipo strambo che corre. Lo scambia per un santone, si aspetta risposte da lui. Quando si ferma su quella strada i suoi seguaci si bloccano e iniziano a mormorare “Fermi tutti! Sta per parlare!”. Sono pronti alla rivelazione, finalmente dirà loro cosa fare o qual è il segreto della vita. Ma lui dice solo “Sono un po’ stanchino. Credo che tornerò a casa ora”.

Un crescendo

Questa è la punch-line, come si direbbe in gergo comico: è la battuta finale che ti arriva come un pugno in faccia. È stata preceduta da una narrazione fitta di eventi costruita in modo da creare un crescendo: un’azione lunga 7 minuti che deve arrivare a un qualche sfogo. E quello arriva: “Sono un po’ stanchino”. Lo spettatore si rilassa, finalmente. E ride. Finché non realizza che neanche alla fine c’è una soluzione: quella storiella ha un finale aperto: non è risolta perché non spiega perché Forrest corresse. Anzi: sposta l’attenzione altrove, comprensibilmente sul suo stato fisico un po’ provato. Ma la morale c’è, se ci guardi bene: non c’è nessun senso nel correre, come non c’è un senso particolare nella vita intera. Corri perché ti va di farlo e vivi allo stesso modo. Perché forse non sai fare altro che correre o vivere.

Forrest Gump sei tu

In quelle parole e in quelle sequenze si può riconoscere qualsiasi runner: non c’è un motivo particolare per farlo oppure ci sono tanti piccoli motivi che neanche sommati fanno una spiegazione. Lo fai per dimagrire? Potresti stare a dieta. Lo fai per meditare? Medita davanti al tramonto. Ci sono mille altri modi per fare quello che diciamo di voler fare attraverso la corsa e l’unico motivo per cui alla fine lo facciamo è che ci va di farlo. Perché credo, in fondo, che sia una delle poche cose che ci riconnette con il nostro essere bambini: era bello esserlo. Era bello non solo non avere uno scopo particolare ma soprattutto era bello fare cose perché ci andava di farle e basta. Lo scopo della nostra vita era fare cose, perché così ci andava. Per questo Forrest Gump parla di corsa ma parla soprattutto di noi: di come eravamo e di come vorremmo tanto tornare a essere. Correndo ci riusciamo.

(Photo by Gerson Repreza on Unsplash)

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2 Commenti

  1. Splendido pezzo, Martino. Seguo sempre i tuoi interventi ma a mio parere questo è il più indovinato di tutti. Lo condivido e lo sottoscrivo: anche e soprattutto perché noi runners non siamo affatto alieni dalla ricerca di un fine nella corsa che sia un altro altrove rispetto alla semplicità infantile (che non è puerile, nell’esatta misura in cui semplice non è facile) del gesto, che sia la ricerca del risultato (ah, quanta energia immolata all’altare dell’inesauribile e implacabile ingordigia del pb) piuttosto che l’invidiabile forma fisica (ieri il gps mi ha detto che solo il 35% degli uomini della mia età ha il mio vo2, figo! quindi stasera una birretta no, troppe calorie). Quando ci si incontra alle corse e ce la si racconta – che maratone ha fatto, quanto ci hai messo -, mai nessuno che ti dica “ti sei divertito? è stato bello?” (l’unica persona che me lo ha chiesto è stata mia figlia, che non corre nemmeno sotto tortura nell’ora di ginnastica). Come se il senso profondo e il valore della competizione fossero racchiusi solo in quelle 2h e poco più che nessuno di noi raggiungerà mai. Come se, appunto, non valesse la pena correre se non ottieni un risultato strabiliante. Della maratona di Milano dello scorso aprile – la mia prima, una fatica atroce – non ricordo il tempo (fuori ogni senso di competizione, va detto), ma la faccia ebetamente felice restituitami il giorno dopo dallo specchio. Come per un parto, dicono le donne runners, se si ricordasse solo del dolore del travaglio, ci saremmo già estinti. Proprio come scrivi tu: si vive, si corre, si.. partorisce (loro, fortunatamente!) perché non sappiamo fare altro e il senso del fare è racchiuso nel fare stesso. Quindi ora me ne andrò a correre, c’è un bel sole e cielo limpido dopo l’acquazzone che ha annullato la tapasciata di questa mattina – lo corse che preferisco, ti diverti un sacco; e oggi il gps lo lascio a casa.

    • Grazie Giampiero! Ecco, hai centrato esattamente il punto: ti sei divertito? Questo conta, perché divertirsi significa ricollegarsi con il nostro Io bambino, quando correvi e facevi ogni cosa per il puro piacere di farlo, di essere creativo, di stare bene. Anzi: non ti chiedevi nemmeno il perché: lo facevi e basta. E stavi benissimo.

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