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Correre richiede testa, gambe e cuore. È un atto di amore e carattere, non solo forza. L’amore permea il movimento.
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Sin da bambini amiamo correre. La corsa è parte dell’evoluzione umana e significa sopravvivenza, gioia, libertà. Però dimentichiamo questo amore con l’età.
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Bisogna ritornare all’essenza: correre per gioia, liberamente e contagiosamente, senza pressioni esterne.
Testa, gambe e cuore. I prerequisiti per correre una maratona o in generale una gara su lunga distanza. Ci vuole carattere. Non grinta, né combattività. Ci vuole un carattere che non ha niente a che fare con la forza, ma al contrario con l’amore. C’è una stretta correlazione tra la capacità di amare e la capacità di amare la corsa. L’amore è un sentimento in grado di riflettersi in ogni nostro movimento, quindi anche nella corsa.
Fin dalle origini
Da bambini siamo tutti più o meno innamorati della corsa tanto da farci rimproverare dai nostri genitori di smetterla di correre e di andare più piano. Ci sgridavano per correre troppo forte mentre ora, da adulti, ci auto rimproveriamo per correre troppo lenti.
La corsa ci ha accompagnato nel corso della nostra evoluzione come genere umano. Abbiamo corso per procurarci da mangiare e per non essere mangiati. Abbiamo corso per scappare, diffonderci, prosperare. Se non avessimo amato la corsa non saremmo sopravvissuti per amare nient’altro. Amare qualcosa o qualcuno significa sentirne un bisogno tale da percepirlo come una parte di noi. Siamo nati per correre e al tempo stesso siamo nati perché corriamo.
Una questione di memoria
Nasciamo come popolo corridore ma con l’evoluzione ce ne dimentichiamo, distratti da tutto il resto.
Da un gesto d’amore la corsa è diventata un mezzo per raggiungere un determinato scopo, un obiettivo. Correre per abbattere un record, vincere un titolo, diventare più magr* o ricc*.
In alternativa perché continuare a correre? Per gioia, per pura e semplice gioia. Come quando correvi da bambin*. Ne saresti ancora capace?
Correre trasudando felicità, così tanta felicità da essere contagiosa. Senza che timore, invidia, gelosia interferiscano tra noi e gli altri. Senza secondi fini, interessi, promesse da mantenere. Inevitabilmente tutte queste influenze esterne minano la serenità con la quale corriamo, appesantendoci con pressioni e preoccupazioni che ci tolgono energie.
Un bambino corre con la spensieratezza e l’ingenuità che contraddistingue la sua giovane età: come può un adulto con tutto il suo bagaglio d’esperienza tornare a quello stadio iniziale, in cui tutto era ancora in divenire e da scoprire?
Un esempio da seguire
Probabilmente per riuscirci dovrebbe trasferirsi ai confini del mondo, abbandonare gli agi della vita moderna, calzare rudimentali sandali e seguire l’esempio del popolo Tarahumara, quello narrato da Christopher McDougall nel bestseller Born to run, libro che ha ispirato questo editoriale. Avremmo tanto da imparare da questi corridori, tanto forti quanto puri.
Alzi la mano chi non desidererebbe correre per decine di centinaia di chilometri a condizioni estreme senza mai infortunarsi né mostrare fatica ma al contrario con un sorriso sincero stampato sul volto? Ora alzi la mano chi, nel leggere queste ultime parole, non si è immedesimato nella parte. Io in primis.
Almeno per ora non c’è limite ai sogni e sognare non costa, ancora, nulla.