Cosa significa vincere

Lo chiamiamo "Il paradosso della vittoria": vincere può portare invidia e gelosia, mentre il processo di provare a fare qualcosa è più condiviso.


  • Il paradosso della vittoria: vincere può portare invidia e gelosia, mentre il processo di provare a fare qualcosa è più condiviso.
  • Tutti comprendono e si identificano con chi ci prova, ma la vittoria divide e suscita sentimenti contrastanti.
  • I vincitori spostano i limiti e aprono nuove strade, anche se non sempre sono compresi o apprezzati immediatamente.

 

Ho letto una cosa detta da Drake. Diceva “Winning is problematic. People like you more when you are working towards something, not when you have it” e cioè “Il problema di vincere è che piaci di più alle persone quando ci stai provando, non quando ce l’hai fatta”.

Drake parte da un paradosso e cioè che vincere – una cosa che tutti vogliamo – è un problema. Certo, penserai, facile dirlo per uno come lui che ha venduto più dischi che abitanti sul pianeta Terra (se non lo sapessi – ed è un tuo diritto sacrosanto non saperlo – Drake è un famosissimo cantante hip hop di grande successo): quando sai benissimo cosa significa vincere, puoi pure permetterti il lusso di pontificare su quanto è faticoso sopportare il peso della vittoria, un po’ come fanno quei miliardari che ti dicono che ok la ricchezza e le barche da 200 metri e le 28 case in giro per il mondo ma “non ho più una vita privata e non mi fido dei rapporti umani”. “Stacce”, come dicono a Roma.

Se però isoliamo le parole, si può concordare che contengono una grande verità, a prescindere da chi le ha dette.

Il punto non è vincere

Il successo e la vittoria portano da sempre con sé delle compagne di avventura di cui tutti farebbero a meno: l’invidia, la gelosia, il sospetto.
“Ha vinto perché non lavora e ha tutto il tempo per allenarsi”. “Beh, facile, con tutti quei soldi puoi permetterti i giocatori/i preparatori/i mezzi migliori”. Mai sentite queste frasi?

La regola non scritta della vittoria è che a essa seguono sempre i tentativi di circoscriverla, sminuirla, svalutarla.

È una reazione molto umana e non va per forza condannata ma piuttosto capita. Andrebbe evitata, s’intende, però capire quali sono i meccanismi che la governano aiuta a capirne le ragioni.

Identificazione

Per tornare alle parole di Drake, “piaci di più alle persone quando ci stai provando, non quando ce l’hai fatta”. Il meccanismo di identificazione interviene nella fase in cui si esprime una grande forza dell’animo umano che è l’identificazione, in questo caso espressa come condivisione di un’esperienza.

A prescindere dall’obiettivo, tutti sappiamo cosa significa “provarci”. Tutti abbiamo provato a far qualcosa che non sapevamo fare, sin da quando abbiamo imparato a camminare, per dire quanto sia naturale per noi il sentimento del “provarci”. Certo, da bambini non vivevamo questa esperienza nella dimensione sociale: non sapevamo nemmeno che esistessero altre persone, se si escludono genitori, fratelli, sorelle e parenti. La nostra idea di società era la famiglia e poi, a dirla tutta, non potevamo neanche pensare che riuscire a fare qualcosa avesse a che fare con il doverlo o poterlo dimostrare a qualcuno.
Quando abbiamo iniziato a camminare abbiamo visto che tutti sorridevano e piangevano dalla gioia e, a dirla tutta, manco ce lo ricordiamo perché è avvenuto in una fase della nostra vita di cui non conserviamo memorie.

L’umanità è però composta da animali sociali e, da un certo punto in poi, quello che fai viene esposto su un palcoscenico molto più ampio della tua famiglia: diventa pubblico.

Sono i primi voti a scuola, i primi risultati sportivi, i successi lavorativi o i fallimenti personali e professionali.

Tutte queste esperienze, sportive o meno, sono composte grossomodo da due fasi: il processo e l’esito. Il processo è quello che ci porta all’esito, detto molto semplicemente.
Nel nostro caso il processo è la preparazione atletica e l’esito è il risultato della gara per cui ci si è preparati.

Nel processo chiunque si può identificare, sia chi ci prova, sia chi non ci si azzarda nemmeno. Tutti sanno di cosa parliamo.
L’esito vittorioso è riservato solo a pochissime persone, in genere a una o a un gruppo, nel caso di una squadra. Per visualizzare il concetto, immagina un cono: il cono (come se fosse quello del gelato!) contiene tante cose ma sulla punta ce ne sta solo una. Una sola persona o squadra può vincere, mentre tantissime possono provarci.

Nel contenuto del cono ci possiamo identificare tutti; stare esattamente sulla punta, soli e vittoriosi, è un’esperienza riservata a pochissimi.

Ecco che il meccanismo di identificazione che porta gli esseri umani a comprendersi, aiutarsi e condividere viene meno. Nascono maliziosi altri sentimenti: l’invidia e la gelosia, su tutti. “Perché lui sì e io no?”. Le modalità con cui si esprimono queste critiche sono poi quelle già citate: sminuire, circoscrivere, trovare giustificazioni che tolgono valore e importanza alla vittoria.

Chi vince, vince per tutti

La questione sta insomma in questi termini: perché in una fase del percorso ci si identifica con chi ci prova e al culmine invece, spesso, ci si dissocia? O, in altre parole, perché la condivisione e la comprensione sono riservate solo al perdente?

Se ci fai caso consolare chi ha perso è molto più facile e naturale che elogiare chi vince. Sostenere nella sconfitta fa infatti sentire meglio chi lo fa perché lo gratifica e lo nobilita nei confronti della comunità (“Che belle parole ha trovato per chi ha perso”, “Che sensibilità nel sostenere il/la perdente in un momento difficile”). Allo stesso modo, elogiare chi vince espone al sospetto che ci siano secondi fini e non il desiderio di manifestare gioia sincera per il risultato.
Non è sempre così, intendiamoci: se la tua squadra vince, la festeggi in maniera sincera e gioiosa, senza poter venire frainteso in alcun modo.
Perché succede? Perché in questo caso la vittoria è già una questione sociale: in fondo parliamo della squadra di una città o, a volte, di un’intera nazione: il livello è già spostato dall’individuale al collettivo.
Se invece la questione resta più individuale, allora il discorso si complica, o meglio soffre di più di invidie e gelosie individuali.

Ripeto: non è detto che sia sempre così e questa non è una regola sempre vera. C’è chi gioisce spontaneamente e continuamente per i successi di amici o anche di sconosciuti ma c’è anche chi non ci riesce e, anzi, ricorre al sospetto, alla denigrazione e ad altre spiacevoli attività.

Alla fine siamo umani e il ventaglio di sensazioni che possiamo provare è molto ampio. Possiamo gioire sinceramente per chi vince o possiamo esserne invidiosi ma non manifestarlo, o, infine, possiamo sminuire i risultati altrui. Quante cose possiamo fare, quante emozioni possiamo provare e poi decidere di manifestare o meno.

Al di là di come ci comportiamo, resta vero però che è più semplice identificarsi in chi ci prova che in chi riesce. Perché succede? Perché nella fase del processo e della preparazione a qualcosa ogni opzione è aperta: l’esito può essere il successo o il fallimento ma, in fondo, tutti ci possono provare. Nella fase dell’esito si tirano le somme: o si vince o si perde e il verdetto è emesso.
Il processo insomma accomuna, l’esito divide. Non sempre ma spesso.

Come si diceva, succede per la natura stessa delle due fasi e perché siamo animali sociali: accettiamo chi è nel gruppo ma quando qualcuno emerge dal gruppo ne prende anche le distanze. Non è più uno fra tanti ma uno su tutti. Il o la migliore.

La funzione sociale della vittoria

Come se ne esce? Con un certo sforzo e cercando di capire a cosa serve chi vince, perché chi emerge ha una funzione sociale, anche se sembra diventato improvvisamente “diverso” dal gruppo.

Chi vince sposta i limiti, chi vince apre nuove strade.

Certo, accade in senso assoluto, è chiaro che nel dettaglio chi vince la Sagra della Salama da Sugo non contribuisce particolarmente al progresso delle sorti umane. Lo fa chi compie imprese davvero eccezionali.
Non è detto che queste persone siano capite dai loro contemporanei e non è nemmeno detto che questi avvenimenti riguardino solo chi vince competizioni sportive o vende più dischi. Pensa a quanti esploratori sono stati trattati come eccentrici individui che rischiano la propria vita per nessuna ragione apparente.

È quello che succede a chi sposta i limiti umani, cioè a chi – in un certo senso – vince: non sempre sono capiti dagli altri, spesso vengono dileggiati e maltrattati. Poi, un giorno vengono capiti nella loro grandezza.
È normale, capita, sarebbe meglio non succedesse con la frequenza con cui succede ma chissà che un giorno non si possa capire che l’esito del processo merita la stessa partecipazione emotiva del processo stesso. Senza lasciarsi distrarre dal fatto che si tratti di una vittoria o meno. Certi vincitori e certe vincitrici lo fanno per se stessi ma anche per tutti noi.

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