Molti trend nascono negli USA, spesso con le migliori intenzioni. Poi, per mille motivi, vengono portati alle estreme conseguenze.
Quello della body positivity esiste da molti anni ma si è intensificato negli ultimi dieci, non a caso in corrispondenza della diffusione dell’uso dei social. La sua origine è in realtà datata a molti più anni fa ma proprio i social hanno contribuito alla sua popolarità.
Innanzitutto: cos’è la body positivity? È, almeno per come la si intende oggi, il rifiuto dei modelli di bellezza proposti e imposti dal moda e dal mercato – spesso basati su canoni irrealistici e sulla diffusione di immagini di corpi splendidi che possono permettersi poche persone dotate di una genetica particolarmente fortunata e di tempo e risorse economiche per mantenerli. I canoni di bellezza esistono da sempre e cambiano con la società, le mode e la storia ma nel secolo passato e in questo, inutile nasconderselo, hanno spesso definito un’estetica dominante, poi usata nel marketing. Un approccio del genere ha però ricadute sociali perché, dato che esalta un modello fisico estremo e ideale, finisce per escludere chiunque non lo rispetti, con ricadute spesso molto gravi dal punto di vista psicologico.
La body positivity è una forza contraria che afferma che ogni corpo ha una sua intrinseca bellezza, a prescindere dai canoni estetici dominanti. Non esiste quindi un’estetica dominante ma tante varianti di bellezze individuali, definite dal concetto che ognuno ha della propria fisicità e dal suo grado di accettazione.
La storia è un po’ diversa
E qui bisogna prendersi una pausa, perché questa è in realtà la sua definizione più recente. Nata negli anni ‘60 negli USA, la body positivity aveva in realtà presupposti molto diversi e affermava che il corpo non doveva mai diventare fattore di esclusione dalla vita lavorativa, pubblica e sociale. Tutti insomma dovevano avere pari opportunità a prescindere da peso, forma, abilità o meno del proprio corpo. La prospettiva era quindi un po’ diversa: più politica, se vogliamo, di certo meno individuale e sicuramente non estetica. L’estetica anzi non c’entrava per niente.
Oggi è l’esatto opposto: si è perso il valore di inclusività sociale che è diventato solo estetico: tutti i corpi sono belli e non più solo “tutti i corpi (e chi ce li ha) devono avere eguali opportunità”. Fino alla concezione corrente della body positivity che, come tutto il resto, non è rimasta immune all’impatto dei social media, stravolgendo il suo spirito originario e arrivando a diventare qualcosa di molto diverso e, in alcuni casi, distorto.
Se è vero infatti che ogni corpo ha una sua bellezza che non deve per forza rispettare canoni condivisi, è anche vero che si è arrivati a proporre come positivi modelli estremi sia in termini di eccessiva magrezza che di eccessivo peso. Niente di grave se non fosse che questi modelli trascurano il rischio clinico che comportano. E se a ciò si aggiunge il “fattore social” l’effetto è moltiplicato: da questione di accettazione intima e personale si passa all’esposizione pubblica del corpo, arrivando alla sovraesposizione.
Ancora una volta: niente di male a esporsi o sovraesporsi (sono scelte personali), almeno finché non si trascurano i rischi di una condotta di vita che finisce per giustificare qualsiasi eccesso eliminando o non menzionando i rischi che ciò comporta. È bello accettarsi in qualsiasi forma ma lo è meno esporlo in modo non responsabile, in nome dell’inclusività a tutti i costi, ignorando che esistono anche ricadute sulla salute. Accettarsi è una grande conquista personale ma far passare il messaggio che l’esserlo socialmente conti di più della conoscenza dei rischi è un altro.
Come nota Jessi Kneeland – trainer e quindi parte di quel gruppo di persone che vengono spesso prese come standard di riferimento di corpi perfetti – su Time, la body positivity ha portato ad accettare qualsiasi comportamento distruttivo (disordini alimentari, diete pesantissime per il corpo, trascuratezza per la propria salute) come tollerabile, perché è più importante accettarsi ed essere accettati.
“Dobbiamo abbandonare l’idea della body positivity. Non c’è nulla di sbagliato nell’amare noi stessi o il nostro corpo, se siamo realistici sul significato di “amore”. Ma non condivido l’idea che dovremmo essere in grado di provare un flusso costante di felicità celebrativa e gratitudine affettuosa nei confronti del nostro corpo, o che dobbiamo abbracciare con gioia ogni fossetta, ogni ghirigoro, ogni centimetro. Non è realistico né necessario.”
Togliamo un po’ di pressione
Il concetto di body neutrality è generato da quello di body positivity ma togliendole la pressione sociale e social. Si basa infatti sull’accettazione dei propri difetti fisici non come belli in sé ma, appunto, come accettabili. Come compagni di viaggio con cui è meglio cercare di costruire un rapporto rilassato perché non ci si può fare molto e non come invadenti presenze da accogliere col sorriso mettendo a tacere la voce interiore.
È un altro grado di consapevolezza di sé che non nega il naturale istinto a tendere a una versione migliore di sé stessi ma lo rende un processo in cui ci si accetta intimamente e non si cerca o si impone la validazione del nostro corpo agli altri. Non dice “Io sono così e dovete accettarmi comunque” ma dice “Prima di tutto è importante che io stesso/a mi accetti, ed è relativo se lo faranno anche gli altri”.
In altre parole, la body neautrality è accettazione, la body positivity – almeno per come è diventata – è un’ostentazione e un’imposizione agli altri.
La differenza sembra sottile ma è sostanziale.
Tra l’altro, spostando l’attenzione dal corpo (non esponendolo) elimina anche un argomento fuorviante, e cioè che come siamo fisicamente definisca anche come siamo intimamente. Il peso o la forma del corpo invece non dicono niente del peso e della forma della nostra anima.
In pratica
Jessi Kneeland spiega anche come riuscire ad accettarsi secondo la body neutrality, specificando un punto importante: negare e reprimere che qualcosa del nostro corpo non ci piaccia significa reprimere sentimenti naturali e soprattutto è come rifiutare il nostro stesso corpo. Accettare che sia naturale non piacersi ma che sia altrettanto naturale conviverci è un’evoluzione verso la consapevolezza di sé.
Come riuscirci? Dialogando con noi stessi, tipo così:
– Vorrei tanto perdere peso e non c’è niente di male (non “Vorrei ma non ci riesco perché non sono capace o perché è stupido avere desideri del genere)
– Non mi piace [una parte del mio corpo] e va bene così
– Vorrei essere più alta, ma non è un problema non esserlo.
Il cambio di prospettiva è radicale: non si cerca una validazione esterna al fatto di non accettarsi ma ci si accetta, prima di tutto.
La body neutrality sposta insomma l’attenzione verso la comprensione di se stessi, privandola del giudizio.
“Non mi piaccio e lo accetto (e cerco eventualmente di cambiare)” invece che “Accettatemi, a prescindere dal fatto che io lo faccia o meno”. La comprensione è insomma accettazione intima e non accettazione sociale.
L’unico modo – conclude la Kneeland – per lavorare su ciò che di noi non accettiamo è approcciarlo con curiosità e comprensione, non trasferendo sugli altri il fatto di essere accettati o meno. Del resto, se non siamo noi i primi a volerci bene, è impossibile che siano gli altri a farlo.