Stefano Gregoretti e Ray Zahab hanno completato l’ultima delle tante imprese che hanno fatto insieme. Questa volta hanno attraversato in fuoristrada (non “con” il fuoristrada, ma fuori da strade e sentieri tracciati) la Death Valley da ovest a est. Per chi non lo sapesse, la Death Valley è uno dei luoghi più estremi al mondo, con picchi di calore che arrivano a 57°C e il rischio concreto di disidratarsi completamente per la rapidità con cui il sudore evapora. L’hanno fatto in 34 ore invece delle 48 che avevano previsto, abbreviando anche la nostra sofferenza perché ogni volta che Stefano ci racconta cosa ha in mente di fare andiamo in ansia.
Ma non è di questo che voglio parlare, o meglio: questo è solo il pretesto.
La riflessione nasce da quello che ha scritto Stefano pochi giorni prima di tentare questa ennesima avventura, e cioè:
“Hanno cercato di inculcarmi che quando si fa una cosa bisogna saperne spiegare il perché: perché ho attraversato la Namibia di corsa, i deserti artici, la Siberia ecc.
Tutte le volte che me lo chiedete mi devo fermare ed obbligarmi a pensare il perché. Tutti lo chiedete. La risposta è che non lo so neanche io! Si fa e basta.”
Inutile negare che questa domanda ricorda molto quelle che ci sentiamo fare o che ci poniamo: perché corriamo? Perché facciamo una cosa che non ha niente di produttivo, che non ha una ragione? In fondo non dobbiamo scappare da leoni che ci vogliono mangiare né corriamo perché così fanno i bambini, perché ahimè, bambini non lo siamo più.
Se ci pensi, da un certo punto in poi della vita qualsiasi cosa doveva avere una giustificazione, un motivo. I perché che rivolgevamo ai nostri genitori per ottenere spiegazioni che ci facessero capire il mondo ci sono stati rivolti contro: perché fai questo? Perché fai quello? Perché studi questo? Perché scegli questo lavoro? Forse si tratta della vendetta dei perché: ne abbiamo abusato da piccoli e ora ce li rimandano tutti indietro, eppure credo si tratti di altro. L’umanità ha bisogno di avere uno scopo, sempre. Lo scopo è una direzione, e il percorso per arrivarci è la vita.
Eppure
Poi arriva Stefano e dice che fa delle cose senza sapere il perché. Come si permette? Perché lui può e noi no?
Allora mi sono dato questa risposta: non è che Stefano non sa il perché, è che non sa ancora il perché. C’è una bella differenza e sta tutta nel rapporto che ognuno di noi ha con il tempo.
Quello che Stefano è abituato a fare da anni gli ha permesso di sviluppare un particolare senso del futuro che, semplificando, è composto da “cose prevedibili” e “cose imprevedibili”.
La pianificazione gli permette di prepararsi a molte delle cose che gli possono succedere durante una spedizione ma resta sempre e comunque una zona d’ombra di cose che non si vedono chiaramente e che non si possono prevedere. In mezzo a queste cose – che la mente umana è portata a pensare siano tutte brutte – ci sono anche le spiegazioni ai perché che ora non hanno risposta. Non cose brutte, insomma. Per niente anzi: sono risposte a domande che ci si pone senza sapere trovare un motivo.
La risposta devi cercarla, non viene lei a cercare te
Il fatto è che per rispondere a quelle domande devi fare il viaggio, devi attraversare la Death Valley – reale o metaforica – e devi andare a trovare quel tuo Io Futuro che ti ha mandato un messaggio, un giorno. Era una voce quasi inudibile che diceva “E se…?”. Era un suggerimento posto sotto forma di domanda. Per Stefano era “E se attraversassi la Death Valley con l’amico Ray che l’hanno scorso non ce l’ha fatta?” mentre per noi è “E se corressi?”.
Voglio insomma dire che si può serenamente rispondere alla domanda sul perché corriamo anche con un rotondo “BOH!”? Sì!
In verità però quello che voglio dire e che è sanissimo e normalissimo fare cose senza sapere il perché. Non perché non esiste il motivo per farle ma perché non sappiamo ancora quale motivo ci sia.
Per scoprirlo dobbiamo farle, per avere una risposta dobbiamo vivere, per capire dobbiamo muoverci. Correndo, possibilmente.