Eliud Kipchoge e il modello keniano

Il keniano Eliud Kipchoge si è ancora una volta confermato il campione superlativo che è: altro successo in maratona a Berlino e nuovo record del mondo. Ma dove nasce e cresce come atleta? Un documentario te lo spiega

Due ore, un minuto e nove secondi. Eliud Kipchoge ha deciso che sarà questo il tempo da battere in una maratona, migliorando il suo stesso record di trenta secondi nell’ultima edizione della maratona di Berlino.
Siamo davanti a un’eccezione, a un atleta che non sente la pressione del tempo (a novembre le candeline saranno trentotto) e che da diversi anni ormai combatte con un unico avversario: se stesso. Basti pensare quanto sia implacabile il suo bilancio nelle World Marathon Majors: 14 partecipazioni, 12 vittorie (con due medaglie d’oro alle olimpiadi). Risultati che hanno consentito a Kipchoge di abbattere un altro limite, forse il più difficile della sua carriera e di ogni maratoneta: diventare un’icona di questo sport, renderlo ancora più popolare grazie a un personaggio vincente e riconoscibile non solo da un pubblico di nicchia. Solo Bikila, negli anni Sessanta, era stato in grado di raggiungere un’impresa simile.
Di riflesso, le vittorie di Kipchoge stanno tracciando un prima e un dopo anche per gli atleti della sua terra d’origine: il Kenya. Ecco, sul “prima” vale fare una riflessione.

La supremazia

Da quando gli atleti del Kenya sono diventati così competitivi (e numerosi) nella maratona?
I risultati parlano chiaro: che si tratti di olimpiadi, mondiali o record del mondo, l’ondata keniana nella maratona è piuttosto recente e ha visto un incremento sostanzioso soprattutto negli ultimi quindici anni, guidata dalle imprese della sua stella Kipchoge. Ormai non c’è ordine di arrivo nelle maratone internazionali che non veda una consistente presenza di atleti del Kenya nelle posizioni più importanti (ad esempio a Berlino 2022 abbiamo avuto quattro keniani in top ten).

Per capire questa tendenza è necessario prendersi un’ora del proprio tempo e guardare il prezioso documentario The Unknown Runner, diretto da Boudewijn de Kemp, e finalmente arrivato in Italia nelle scorse settimane grazie a Netlfix.
Premessa: non è un lavoro così recente come può sembrare. È stato prodotto nel 2013, ma oggi si presenta come straordinariamente attuale perché girato proprio nel periodo in cui il modello-Kenya stava iniziando a dare frutti importanti.

Il documentario ha un punto di vista ben preciso ed è quello dell’atleta Geoffrey Kamworor (pluricampione di mezza maratona e due volte vincitore a New York) impegnato a preparare la prima maratona internazionale della sua carriera.
Partendo dal suo punto di vista, The Unknown Runner porta le sue telecamere nei centri di atletica del Kenya, i luoghi dove si costruiscono i record del mondo e i campioni di domani. La presenza di queste strutture è stato già un passo fondamentale per dare la possibilità agli atleti di concentrarsi solo sulla corsa e vivere da professionisti, così come succede agli altri atleti internazionali. Uno dei problemi di fondo, infatti, è stato proprio quello di garantire un minimo di isolamento dalle comunità, in modo da proteggere i corridori da numerose distrazioni.

In passato era frequente vedere campioni keniani sparire dalle grandi corse dopo un solo successo internazionale o una medaglia, proprio a causa della pressione che si sentiva una volta tornati in patria. Non dimentichiamoci del contesto: siamo in Africa, un atleta vincente è considerato anche come una fonte di ricchezza finanziaria, quindi era molto frequente che i campioni venissero avvicinati da numerose richieste di aiuto da parte di famiglie o interi villaggi. Aiuti che arrivavano puntuali, ma che toglievano quella serenità ed equilibrio necessari per affrontare al meglio uno sport esigente come la corsa.

Un isolamento ricercato

La creazione dei centri di atletica non ha portato certo a delle barriere con la comunità, bensì ha contribuito a introdurre il concetto di professionismo e aiutare gli atleti a concentrarsi maggiormente nelle loro giornate. Inoltre, la presenza di sponsor ha portato introiti più stabili e meno vincolati dai montepremi delle gare che hanno consentito ai singoli atleti di gestire in maniera più ordinata i propri guadagni. Coach europei in cerca di nuovi campioni, centri di management internazionali e – ça va sans dire – le vittorie hanno fatto il resto.
A queste ragioni tecniche seguono, poi, degli aspetti ambientali tutt’altro che scontati. Nonostante il Kenya sia un paese equatoriale, la presenza di grandi altopiani dà vita a un clima d’altura piuttosto vario e particolarmente adatto alla corsa. The Unknown Runner, infatti, dedica una buona prima parte dell’intero documentario a mostrare proprio le condizioni in cui si allenano gli atleti keniani.

C’è l’Africa in tutta la sua essenza: lunghi rettilinei in terra battuta scavati dalle gomme delle poche automobili che si incontrano, fondi irregolari, salite durissime, pozzanghere sparse un po’ dappertutto, piste di atletica in terra su cui ci passano le mucche, pozzi da azionare manualmente per recuperare l’acqua. I chilometri di asfalto sono pressoché inesistenti (e questo è un bene soprattutto per il potenziamento dei muscoli e la protezione delle articolazioni), il dislivello è sempre piuttosto importante con sessioni di salita che spaventerebbero anche un ciclista professionista.
Coabitare con queste condizioni è indispensabile per costruire fondisti in grado di sviluppare forza, velocità e resistenza. L’altopiano si presenta non tanto come un semplice luogo in cui allenarsi, ma come una palestra in cui plasmare atleti chiamati a prestazioni fuori dall’ordinario.
E poi c’è quello che gira intorno alla corsa, importante quanto le gare. Si mangia insieme, a fine allenamento ognuno si impegna a lavare le proprie scarpe, non si vede mai un volto tirato, solo tanti sorrisi e un clima rilassato. Si diventa persone che possono diventare ispirazione per i più piccoli perché deve passare il messaggio che “è la corsa, posso farlo anche io”.
E magari salvarsi, sognare di girare il mondo.
Con le proprie gambe, a spasso sull’altopiano.

Andrea Martina

(Credits immagine principale: Wikimedia)

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