Dimagrire per correre, e non viceversa

Nell’ottobre, o forse novembre, duemilaquattordici – una vita fa a pensarci – scoprii Runlovers e i suoi articoli. Lavoravo in Norvegia, all’Università di Oslo, e avevo una vita estremamente standardizzata. Lavoro, casa, corsa, casa. Uguale per tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica in cui andavo a fare compere o a visitare qualche posto – sempre dopo aver corso un po’.

All’epoca non correvo tanto come ora, ma cercavo comunque di correre ogni giorno, anche per superare la noia dovuta alla solitudine forzata dello stare in un posto dove non conoscevo nessuno, a esclusione dei colleghi di lavoro. Avevo iniziato a pensare, in quel periodo di fine ottobre o inizio novembre, in cui l’autunno norvegese sembrava il più freddo degli inverni che avessi mai vissuto, che sarebbe stato bello fare una gara di corsa, visto che lì in zona ce n’erano tante, e che mi sarebbe piaciuto fare una mezza maratona. Non mi ero mai avvicinato a quella distanza, ma ero convinto di potercela fare, e così cercavo tra i vari articoli di Runlovers un po’ di consigli e motivazione. Mi convinsi e una domenica di metà novembre corsi, per la prima volta in vita mia, una gara sulla distanza della Mezza Maratona, poco a nord di Oslo, a Jessheim. Tagliai il traguardo stanco ma con una soddisfazione che non pensavo poter avere, non per una cosa del genere, almeno fino a pochi mesi prima.

Ancora non sapevo che ne avrei corse a decine e che sarei arrivato a correre diverse volte anche la Maratona, per cui in quel momento mi sembrò di aver raggiunto il massimo che un uomo di oltre centoundici chili potesse raggiungere.

Il muro che non vedevo

No, non hai letto male, anche se la storia va forse raccontata un po’ meglio e partendo da qualche mese prima, perché la strada fatta per tagliare il traguardo di Jessheim comincia in una sera di inizio primavera dello stesso anno, in cui un temporale, uno dei tanti che in quel periodo facevano cadere pioggia a catinelle in città (tanto da farci soprannominare Sassari “la piccola Londra”), aveva fatto rinviare la partita di calcetto settimanale in cui giocavo come portiere (sono stato un discreto portiere). Ormai da anni quella era la mia unica attività sportiva, in cui l’esperienza e il livello di gioco non estremo mi consentivano ancora di poter spendere due parole, per cui, convinto delle mie possibilità fisiche, pensai che se pure non era stato possibile andare a giocare a calcetto sarei potuto andare a fare almeno una mezz’ora di corsa.

Aspettai che si placasse la pioggia, misi ai piedi un paio di scarpe da ginnastica e uscii per correre. Le mie aspettative si infransero contro il muro dell’obesità. Andai in affanno subito, mi risultò praticamente impossibile correre continuativamente per più di qualche centinaio di metri e dovetti fare lunghi tratti camminando, ma mi ero imposto di fare una mezz’ora e così fu. Rientrai a casa madido di sudore, scossi un po’ la testa e salii sulla bilancia. Ci lessi il numero centoundici, oltre ad altri duecento grammi. Considerando che avevo anche sudato tanto – ma davvero tanto – quei tre numeri uno avrebbero potuto probabilmente essere un centododici o più probabilmente un centotredici. Scossi di nuovo la testa. Era un giovedì sera e si sa, i giovedì sera sono i momenti migliori per prendere delle decisioni sulla propria vita, quindi decisi che mi sarei dovuto rimettere in forma.

Dovere o volere dimagrire?

Non avevo mai considerato la mia obesità un problema. Non mi ero mai messo davanti allo specchio pensando che il mio corpo fosse terribile, o che fossi inadeguato. Non che fossi cieco, sia chiaro, ma non mi era mai importato più di tanto, e a poco erano serviti fino ad allora gli inviti della mia famiglia e dei miei amici a “tornare in carreggiata”. In più, fino ad allora, il mio essere sovrappeso non mi aveva dato grossi problemi nella vita di tutti i giorni. Certo, non sempre trovavo l’abbigliamento della mia taglia e a volte anche solo fare le scale mi dava il fiatone, ma tutto sommato non c’era nulla, nella mia vita, che mi suggerisse di dover cambiare, e posso dire che mi consideravo una persona felice. Quella sera, però, qualcosa si era riacceso nella mia testa.

Il non riuscire a fare nemmeno trecento metri di corsa, e quelli che ero riuscito a fare mi erano costati tantissima fatica, mi aveva messo di fronte alla realtà dei fatti: dovevo dimagrire. Dovevo, o volevo, questo ora non saprei dirlo. Non saprei ben definire quale di questi due verbi si adattasse meglio ai miei pensieri di quei giorni, ma il succo del discorso era che avrei dovuto perdere peso. Quindi, con una determinazione che mai avrei pensato di poter avere, presi appuntamento dal medico, feci le dovute analisi e misi giù un piano alimentare adatto alla mia situazione.

Se hai letto qualche altra volta Runlovers, saprai che c’è una cosa che diciamo sempre, e che fortunatamente misi in pratica da subito anche io: non si dovrebbe correre per dimagrire, ma si può dimagrire per correre. L’esercizio fisico, se è vero che ti aiuta a smuovere il metabolismo quando è lento, poi non basta da solo per farti tornare in forma e il rischio è che si riprendano i chili persi in meno del tempo che hai impiegato per perderli. Nel mio caso, visti i tanti – tantissimi – chili di troppo che avevo accumulato, la combinazione dieta + esercizio significò dare una spallata a un metabolismo praticamente immobile, e perdere subito diversi chili.

Fu facile perdere i primi cinque, e poi altri cinque. Dieci chili andarono via in un mese circa. Erano tanti, ma le visite mediche e le analisi dicevano che stavo reagendo bene, per cui non c’era di che preoccuparsi. Al secondo mese se ne andarono altri sette, poi man mano che il tempo passava e che i chili di troppo diminuivano, scendere di peso divenne più difficile, ma divenne al contempo più facile correre. Non aver perso quanto previsto in quella settimana era compensato dall’aver chiuso per la prima volta i dieci chilometri continuativi, oppure aver fatto un tempo migliore sui cinque, e così via.

Alla fine dell’estate, poco prima del momento previsto per la partenza in trasferta lavorativa in Nord Europa, ero tornato al peso che avevo da ragazzo, dieci o forse anche quindici anni prima. Eppure, la notte mi capitava spesso di sognare ancora il me stesso obeso, e durante il giorno di aver difficoltà a riconoscermi allo specchio, se ci passavo di fronte e davo un’occhiata di sfuggita. È una cosa comune in questi casi. D’altronde, erano passati solo pochi mesi da quella sera di primavera, e quel cambiamento era stato così incredibile da sembrare impossibile. Eppure era successo, ce l’avevo fatta.

Ed ecco il motivo per cui, dicevo, tagliando il traguardo della Jessheim HalvMaraton, pensai che quello fosse il momento più bello – almeno sportivamente parlando – che un uomo di centoundici chili potesse immaginare di vivere, anche se di chili ne avevo effettivamente addosso quaranta di meno.

Parlando con il me stesso del passato

Mi è capitato tante altre volte, tutte le volte a dir la verità, di pensare a quell’uomo, al me stesso obeso, poco prima di tagliare un traguardo, e in molti casi ci ho parlato, con il me di allora, per dirgli che non sono mai stato arrabbiato con lui, che ero felice della mia vita di allora e che ne sono felice ora, tante vicissitudini e tanti, tantissimi chilometri dopo quella sera di marzo in cui decidemmo di cambiare molte cose. Forse continuo a parlarci, a immaginare di poterci dialogare – un po’ come sto facendo ora scrivendo queste righe – perché son contento di essere riuscito a dare il giusto peso a ciò che mangio, a vedere il cibo come carburante per le cose da fare e non come un nemico da combattere. Oggi non riesco a immaginare la mia vita senza correre, non riesco a pensare di visitare un posto e non farci una corsa o di tagliare un traguardo di una Maratona senza sorridere. E questo lo devo, in gran parte, al non essere riuscito a fare trecento metri di fila quella sera.

Certo, non tutti riescono a raggiungere gli stessi risultati e con gli stessi tempi, né si può pensare che per tutti valgano le stesse cose, ma il motore centrale, quello che deve far partire il meccanismo, è la nostra testa. Dobbiamo soltanto cercare di comprendere il nostro corpo, senza odiarlo, senza arrabbiarci con noi stessi e senza cercare una rivalsa sulla vita. Può essere un processo lungo e che richiede impegno, dedizione e costanza, ma funziona.
Quando alcune volte mi dicono “eh, ma io non riesco, non ho tempo, non ce la faccio” mi torna in mente quel me stesso che diceva le stesse cose. Finché un giorno ha deciso di riuscire, trovare il tempo, farcela.

Come direbbero gli americani “it’s up to you” – dipende da te.

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4 COMMENTS

  1. Bellissima storia Pietro, non sapevo di questo “te” del passato. Ti ho conosciuto solo sui social dove sei un esempio da seguire (influencer no? :) ) , ma mi hai sempre trasmesso anche un senso di “normalità” , un ragazzo normale che fa cose normali. Ma questo aspetto del tuo passato non lo avevo mai colto. Ancora più complimenti, e buone corse

    • Grazie mille Andrea!
      Se hai visto post da ragazzo (grande, RAGAZZO mi piace assai!) normale è perchè sono effettivamente una persona normale che fa cose normali. Non mi sono mai sentito e non penso di essere “un influencer”, ma se in qualche modo posso essere stato di ispirazione per qualcuno, ne sono contento!
      Grazie davvero!

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