Non ci sono dubbi: la lepre è un animale, per la precisione un mammifero lagomorfo appartenente alla famiglia dei Leporidi, qualsiasi cosa voglia dire “lagomorfo”. Ti sarà però capitato di sentirla evocare in una gara di corsa.
In questo caso specifico non si tratta ovviamente dell’animale ma di un particolare tipo di runner con una funzione specifica: quella di dare il tempo e “trascinare” i concorrenti, lasciandoli liberi di concentrarsi solo sulla gara senza pensare a tempi e andature. Perché? Perché quelli li fanno le lepri, appunto.
In inglese la lepre si chiama pacemaker (come il congegno che aiuta il cuore a mantenere un ritmo di battiti costante, cioè è “quello che dà il ritmo”) o “rabbit”, che non è tradotto letteralmente con “la lepre” trattandosi del coniglio. Curiosità sugli animali di riferimento a parte, la domanda potrebbe sorgere spontanea: perché le lepri partecipano ma non per vincere? Per due motivi principali: perché il loro scopo è quello di aiutare i concorrenti dandogli l’andatura e perché generalmente non mantengono il ritmo per tutta la gara ma solo per segmenti (succede anche frequentemente che corrano l’intera gara). E anche perché è una questione di onore: il loro scopo è dare supporto, non gareggiare.
Che poi non è del tutto vero che non vincono. Per esempio nel 1994 alla maratona di Los Angeles successe che una delle lepri designate fosse Paul Pilkington, un maratoneta navigato che partì con andatura molto sostenuta sino a distaccare il gruppo di testa. Gli accordi con l’organizzazione erano che avrebbe corso fino ai 20km ma tale fu il vantaggio che accumulò che decise di proseguire, arrivando a vincerla sull’italiano Luca Barzaghi con ben un minuto di vantaggio.
Una figura relativamente nuova
L’utilizzo della lepre nelle gare di corsa è abbastanza recente. Una delle sue prime apparizioni risale al 1954 a Oxford, quando gli inglesi Chris Brasher e Chris Chataway furono le lepri di Roger Bannister che gli permisero di battere il record mondiale del miglio col tempo di 3’59″4, finendo per essere il primo uomo a correre questa distanza in meno di 4 minuti.
Uno dei suoi impieghi più recenti e articolati è invece del 2017: in occasione del tentativo di scendere sotto le due ore a Monza sulla distanza della maratona, i tre maratoneti che avevano lanciato la sfida erano preceduti da una falange di ben sei lepri che avevano non solo lo scopo di fare l’andatura ma anche di penetrare l’aria e di “scaricare” i contendenti di parte del peso aerodinamico che altrimenti avrebbero dovuto affrontare, creando una propizia scia. In quel caso, anche per via del ritmo forsennato che Eliud Kipchoge impose alla gara, le sei lepri si alternavano con squadre fresche a ritmi regolari. Kipchoge non ce la fece ma compì poi l’impresa due anni dopo, nel 2019 a Vienna, quando riuscì a scendere sotto il muro delle due ore.
Ma perché proprio lepre?
Già: perché si chiama lepre? Una spiegazione possibile è legata al fatto che la sua funzione ricorda un po’ quella dell’animale, per almeno due motivi: perché è “cacciata” (cioè inseguita) da chi partecipa alle gare e anche perché il suo destino – salvo casi particolari come quello visto prima di Los Angeles – è quello di non vincere mai e quindi di essere sempre fuori dal gruppo di chi può gioire per un risultato importante. La lepre infatti (e parlo dell’animale in questo caso), a differenza del coniglio che le assomiglia, salvo avere dimensioni più contenute, è un animale più asociale e destinato a vivere defilato.
Come le lepri nelle gare di corsa: abituate a fare un lavoro importantissimo per il quale probabilmente non saranno ricordate. A parte quando gli prende bene e si dicono “Ma sì, questa gara mi sa che la vinco”. E la vincono.