Non so se tutti abbiano un loro film di Wes Anderson preferito, il mio è sicuramente I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums) con il quale a mio avviso aveva già raggiunto una sorta di perfezione vent’anni fa.
Dopo di allora l’ho comunque seguito e amato – con grande soddisfazione – in tutte le sue peregrinazioni cinematografiche al ralenti, da quelle matte e nonsense a quelle ancora più matte e nonsense. Certo è difficile che Wes Anderson ti piaccia “abbastanza”. È un po’ come la pizza cotto e ananas, non esistono vie di mezzo: o lo ami o lo odi. Io lo amo. Immagina quindi la mia immensa gioia quando qualche settimana fa ho avuto il privilegio di assistere alla première di The French Dispatch in Fondazione Prada: c’era Wes in persona (con un completo di ciniglia verde che si può permettere solo lui), c’era il Bar Luce (progettato da lui) a fare da cornice e c’era pure un flipper utilizzato nel film. Praticamente la perfezione.
The French Dispatch
Il film racconta della redazione di una fantomatica rivista (The French Dispatch appunto), supplemento ad un altrettanto fantomatico quotidiano del Kansas. Per non farci mancare un elemento surreale fin dal concept aggiungo che la redazione è situata in Francia, nel – fantomatico pure lui – paesello di Ennui-sur-Blasé (letteralmente “noia su apatia”).
La verità però è che tutta la storia della redazione – oltre a essere un omaggio dichiarato al The New Yorker magazine – altro non è che uno stratagemma narrativo per tenere insieme quattro episodi, quattro storie completamente slegate tra loro. Lo dico subito così non ci fraintendiamo poi: a mio avviso un collante estremamente debole e a tratti gratuito, poteva essere (quasi) qualsiasi cosa. Peraltro l’enorme bellezza di questa parte avrebbe meritato che il film fosse dedicato esclusivamente alla peculiare redazione del The French Dispatch, invece.
Senza rischiare inutili spoiler posso dirti che per il resto si tratta di 108 minuti di Wes Anderson che fa un film di Wes Anderson all’ennesima potenza.
Un susseguirsi frenetico di quadri maniacalmente studiati in ogni più piccolo dettaglio: colore, luce, musica, inquadratura e (pochi) movimenti di macchina. La stessa frenesia e perfezione (di più, di più) che trovi in Grand Budapest Hotel, però là c’era una storia. Strampalata e nonsense ma una storia. A me qua la storia è mancata.
A questo punto perché non farne una mini-serie? Tanto il genere oramai ha raggiunto livelli qualitativi e investimenti elevatissimi. Otto episodi, la redazione del TFD a fare da filo conduttore e boom. Io avrei apprezzato.
Però non si può certo dire che Wes Anderson non faccia le cose con maniacale cura: qui trovi il racconto di come la rivista sia stata progettata per davvero dal suo team creativo, incluse finte pubblicità e box da ritagliare per sottoscrivere l’abbonamento!
Il cast è monumentale – in ordine completamente sparso: Bill Murray, Tilda Swinton, Benicio del Toro, Frances McDormand, Owen Wilson, Adrien Brody, Elisabeth Moss, Christoph Waltz, Jeffrey Wright, Timothée Chalamet, Léa Seydoux, Willem Dafoe, Edward Norton e qualcun altro che sto certamente dimenticando – ma gran parte degli attori ha poco più di una manciata di battute, nel migliore dei casi. Quasi a ricordarci che zio Wes avrebbe potuto fare lo stesso film con chiunque.
Non pensare che ti stia consigliando di non andare a vederlo, anzi, penso che vada assolutamente visto. Alla fine si tratta sempre di una questione di aspettative: se le abbassi un pochino poi esci dalla sala più soddisfatto.
Ah, se hai già visto il film e quello là ti sembrava lui, sì: è proprio lui.