“Oggi non corro” – la nostra rubrica che ti propone alternative alla corsa (e allo sport, perché no?) oggi ospita un caro amico di Runlovers: Andrea Martina. Di lui e del suo bellissimo lavoro di scrittore e autore di uno splendido podcast su Gino Bartali avevamo già parlato ma oggi Andrea scrive di uno dei più famosi film della storia, che contiene anche una stupenda e celeberrima (e lunga) sequenza sulla corsa: Forrest Gump.
Martina ne dà un’interpretazione molto originale e particolare, svelando anche dei dettagli meno noti della produzione del film.
Buona lettura e benvenuto (e ben tornato) ad Andrea!
Le idee semplici sono le migliori, ma anche le più difficili da trovare. Per esempio c’è questa: un uomo seduto su una panchina incomincia a raccontare la sua incredibile storia a degli ascoltatori occasionali che aspettano l’autobus.
È questo il punto di partenza di Forrest Gump, uno dei film più significativi degli anni Novanta (e non solo), nato dall’omonimo romanzo di Winston Groom e portato sul grande schermo da Robert Zemeckis. Ma attenzione: il Forrest Gump interpretato da Tom Hanks non è proprio quello del libro.
L’idea di base, in realtà, è simile: un ragazzo con un basso quoziente intellettivo che si ritrova a compiere grandi imprese grazie a qualità di cui lui stesso è inconsapevole. C’è però un grande assente nelle pagine di Groom che viene introdotto dall’adattamento cinematografico ed è la corsa.
Che cos’è la corsa per Forrest Gump?
Forrest corre, corre come nessun altro, corre così forte che a volte è proprio impossibile fermarlo. Una qualità che ha permesso a questo personaggio di essere considerato un vero e proprio simbolo della corsa, sicuramente più pop rispetto al Filippide (o Fidippide) di greca memoria, protagonista del mito che ha generato la maratona.
Nella corsa di Forrest passa la sua eccezionale vita costellata da imprese tanto straordinarie quanto assurde: è stato lui a insegnare a Elvis Presley i passi giusti per ballare il rock ‘n’ roll, i successi a football lo hanno portano a incontrare Kennedy e scoprire una misteriosa dedica di Marilyn Monroe rivolta al presidente, poi è andato a combattere in Vietnam e ha ricevuto la medaglia d’onore al valore militare, ha scoperto di essere un campione a ping pong e ha sfidato con successo i cinesi in piena Guerra Fredda, ha provocato involontariamente lo scandalo del Watergate che ha incastrato Nixon, è diventato un imprenditore di successo grazie a un peschereccio di gamberi e investendo nelle quote di una giovane azienda chiamata Apple è diventato miliardario. Una vita allucinante che trova dei momenti davvero significativi nei pochi (ma potenti) affetti che accompagnano Forrest in tutti questi eventi: l’amore verso l’amica d’infanzia Jenny, le perle di saggezza di sua madre e i due amici, “Bubba” e il tenente Dan, conosciuti durante la guerra in Vietnam.
E poi tanta, tantissima corsa.
Resta quindi da chiedersi alla fine della storia: che cos’è la corsa per Forrest Gump?
Le storie iniziano dal loro inizio
Riavvolgiamo il nastro, partiamo dalla prima scena (che è anche l’ultima): Forrest è seduto su una panchina, ha solo voglia di raccontare la sua storia, non importa chi sarà l’interlocutore, anche perché alla fermata dell’autobus puoi incontrare chiunque. Non si preoccupa della reazione di chi ascolta, non si preoccupa del fatto di non essere preso sul serio. Lui è fermo, seduto. Vuole tornare indietro con le parole perché si è accorto che lui della vita non sapeva niente e che solo correndo ha imparato quello che gli serviva, come per sua stessa ammissione: «non sono un uomo intelligente, ma l’amore so cosa significa». E c’è arrivato, Forrest: giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro. Per questo adesso può rimanere comodo su una panchina a mangiare cioccolatini e chiacchierare con chi capita.
Anche perché Forrest di strada ne ha fatta tanta.
A esempio, una mattina Forrest scopre che la sua Jenny non è più in casa, è andata via. Quasi dettato da una reazione istintiva, incomincia a correre. Lo spettatore potrebbe pensare che quella corsa sia dettata dalla voglia di ritrovare la persona amata. E invece no. Forrest vuole solo arrivare alla fine della strada, poi si spinge alla fine della città, poi va verso la fine della contea e arriva a correre per oltre tre anni attraversando in lungo e in largo gli Stati Uniti.
È il momento topico del film, il passaggio che trasforma Forrest Gump in simbolo. La sequenza in questione, tra l’altro, porta con sé anche un affascinante “dietro le quinte” raccontato nell’ottima docuserie I film della nostra infanzia (Brian Volk-Weiss, 2019, Netflix): a causa di un budget costantemente ridotto dalla produzione, Tom Hanks e il regista Robert Zemeckis, che avevano già rivisto al ribasso i loro compensi, furono costretti a pagare di tasca propria cinquecentomila dollari per poter ultimare la sequenza nella Monument Valley e salvare la scena più importante del film. Forrest ci arriva dopo più di tre anni di corsa e non è più lo stesso Forrest di quando era partito: ha barba e capelli lunghissimi ed è circondato da un gruppo di seguaci che prova a tenere il suo passo e mostra una profonda delusione quando lui all’improvviso si accorge di essere stanco e che è arrivato il momento di tornare a casa. Il mondo aveva accompagnato quel viaggio interrogandosi sulle ragioni che spingessero quell’uomo a non fermarsi mai, lasciandosi ammaliare dall’impresa eccezionale da raccontare.
Ma Forrest corre perché ne ha voglia, perché la mamma gli diceva spesso che «un uomo si capisce dalle scarpe che indossa», da quanto sono consumate, da tutta la strada che ha fatto. Corre per capire, conoscersi. Ed ecco che la corsa si mostra nel suo contenuto più grande e potente: il segno che lascia dentro di noi, il passaggio tra un prima e un dopo.
Correre per cambiare
Chi corre va incontro a un cambiamento, non torna mai a casa nelle stesse condizioni in cui è partito, che sia un viaggio, un allenamento o qualsiasi altra cosa. Forrest non ha bisogno di una causa o una motivazione in particolare per mettersi a correre, vuole farlo e basta perché ha bisogno di sentire i segni addosso, di conoscere i limiti, di scoprire il corpo vivo che ha accompagnato la sua vita. È uno dei momenti più liberi della storia del cinema, uno di quelli capace di generare appartenenza con lo spettatore, in grado di estendersi fuori dallo schermo e diventare insegnamento quotidiano, ispirazione.
Correre per correre.
Poi ci sarà sempre una panchina per fermarsi, parlare con qualcuno. E non importa se gli altri crederanno o meno alla nostra storia. Anche perché certe storie sono talmente belle che per forza devono essere vere.
Andrea Martina
Bellissimo articolo e bel commento per un film straordinario