Cucina al Training Camp

Siamo molto felici di ospitare una serie di post di Stefano Pampuro che parlano di una splendida avventura che ha vissuto nell’Africa dei runner. 

Nel gennaio 2020 Stefano ha sentito l’esigenza di intraprendere una nuova avventura in Africa, nella culla del running, allenandosi sugli altopiani del Kenya e dell’Etiopia insieme ad alcuni degli atleti più forti al mondo. Un’esperienza che gli ha fatto toccare da vicino i drammi di un continente che fatica a rialzarsi, nella cornice dell’epidemia più grave degli ultimi cent’anni. Da questa esperienza è nato un libro: Oltre il confine. Viaggio verso il cuore della corsa. Il libro è uscito ieri, 29 aprile, e lo puoi acquistare su Amazon.

Buona lettura!

Correndo spesso all’alba ho il resto della mattina libera così ne approfitto per fare un salto a Kapsabet. In realtà ci vado tutti i giorni dopo colazione, quando il sole è quasi allo zenit e l’aria si trasforma in un forno.
Al villaggio ho trovato un buon supermercato dove mi rifornisco di frutta e soprattutto di acqua, visto che non me la sento ancora di bere quella del rubinetto.
L’unica cosa che mi manca sul serio dell’Europa è la cucina, e devo dire che quando si mangia di gusto, poi il resto della giornata prende tutta un’altra piega. Tra l’Italia, la Spagna e la Grecia sono stato abituato bene, anche se devo dire che i piatti keniani non mi dispiacciano affatto. Il problema è che la cucina del camp passa sempre le stesse cose. Non riesco a capire se il motivo è rispettare qualche dieta sportiva o mettere d’accordo i ventidue ragazzi che ci abitano. L’ugali è il loro piatto nazionale, molto simile a una polenta ma priva di sapore, e l’accompagnano con verdure bollite e patate.
La carne è l’altro punto dolente. So che non toccano quella di maiale per una ragione culturale, ma non riesco a capire cosa abbiano contro quella di pollo e di mucca. A pranzo invece viene sempre servito riso con fagioli, quello non manca mai. Non sono certo venuto in Kenya per strafogarmi di pastasciutte, bistecche e gelati, ma quando passi un mese mangiando solo tre cose la pancia si ribella. E allora mi defilo e scappo al villaggio dove per meno di duecento scellini (2 euro) mi concedo un pasto un po’ diverso.
È il mio piccolo strappo alla regola, insieme al barattolo di Nutella formato mini che ho comprato lo scorso giovedì e che trasforma delle banalissime fette di pan carré in colazioni da principi.
Ma ci sono due cose di cui mi sono veramente innamorato stando al camp e di cui forse non potrei più fare a meno. Il chaik e i chapati, due istituzioni della cucina keniota.
La prima è una bevanda a base di latte e tè che i keniani bevono principalmente a colazione e a merenda. Probabilmente un retaggio culturale degli inglesi, o forse viceversa. I chapati invece assomigliano alle piadine e vengono servite per accompagnare i pasti. Mi piacciono così tanto che ogni sera vado a sbirciare nella baracchetta dove Peter è intento a cucinare sperando di trovarmele per cena.
Chi pensa a un camp di atleti professionisti probabilmente si immaginerà una cucina enorme, con diversi cuochi impegnati a tutte le ore, ma si sbaglierebbe di grosso. Qui le cucine con fornelli sono cosa assai rara e si fa ancora tutto con pentole messe a scaldare sulla brace. La cucina è spesso un locale separato dall’edificio abitativo, più verosimilmente una baracca in lamiera illuminata quanto basta. Se la pensiamo con la nostra mentalità non ci mangeremmo mai, ma qui in Kenya è una cosa perfettamente normale.
Nonostante sia poco più che una cascina per gli attrezzi, fare una visita a Peter mentre cucina è diventata una delle tappe fisse della mia giornata. Mi sta molto simpatico Peter, e mi ci sono affezionato molto. Un ragazzo semplice e premuroso, capace sempre di metterti di buon umore. Quando i primi giorni non riuscivo ad alzarmi dal letto per la fatica degli allenamenti, veniva sempre nella mia stanza a portarmi da mangiare come un moribondo all’ospedale.
Verso le sette l’interno della baracca è sempre illuminata dal fuoco e quello spazio buio e angusto con le ragnatele sul soffitto si trasforma in un salotto confortevole. Mi piace starmene lì seduto sulla panca in legno a guardare Peter mentre rimescola l’ugali con lunghissimo mestolo di legno. Muganghe’t, mi pare si dica nella lingua kalenjin, ma la pronuncia non è mai stata il mio forte. Non siamo mai noi due da soli, c’è sempre qualcuno dei ragazzi che passa di lì per fare due parole, e io provo a segnarmi sul mio quaderno tutte le parole nuove che posso imparare.

Penso che Peter sia l’unico keniano della zona che non corra, e questo mi conforta abbastanza perché non mi fa sentire come un marziano in questo recinto di stelle.
Quando l’ugali è pronto viene portato sul tavolo della sala e rovesciato su un vassoio metallico, poi a turno ciascuno se ne prende una fetta aggiungendoci la pietanza di turno.
Ho notato che i keniani mangiano velocemente e in silenzio, e appena finito spariscono in camera loro. Io sono l’ultimo a rimanere in piedi, anche perché in tv c’è una serie popolarissima che si chiama Sellina che mi tiene incollato davanti allo schermo. È strano, perché in Spagna non la guarderei manco per sogno, mentre qui la trovo perfino piacevole.
Vado molto d’accordo con tutti, anche se ho legato solo con pochi. Martin ed Ewin sono i miei due punti di riferimento al camp, non solo perché condivido la stanza con loro, ma perché si preoccupano sempre per me. Edwin parla un ottimo inglese e ha una mentalità molto occidentale. Con il suo 2:07’ che gli è valso la maratona di Milano e altri podi di un certo calibro è anche uno dei maratoneti con più esperienza. Sua moglie e suo figlio piccolo abitano a un paio di chilometri da qui, eppure preferisce starsene al camp come tutti gli altri ragazzi.
Martin invece ha una storia molto difficile alle spalle, ogni volta che me ne racconta un pezzo riesce sempre a stupirmi su come sia riuscito a trovare le forze per andare avanti. In una società come questa, dove il successo è spesso legato a quanto corri forte, è facile vedere assieme atleti molto ricchi con altri poveri in canna. A volte, soprattutto tra i più giovani, anche le cose più semplici possono sembrare beni di lusso.
Per il resto i ragazzi non devono pensare a niente se non allenarsi e riposare. Alle spalle c’è una società ben strutturata che non gli fa mai mancare l’essenziale, lasciandoli liberi di concentrarsi solo sugli allenamenti.

 

(Credit immagine principale atosan on DepositPhotos.com. Le altre immagini sono dell’autore)

PUBBLICATO IL:

Altri articoli come questo

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.