Lo confesso: spesso ho risposto alla domanda sul perché corro dicendo “Perché mi diverto”. Poi ho riflettuto su questa risposta e mi sono chiesto se era davvero giusto affermare che mi diverto a farlo. Intendiamoci: trovo divertente vedere uno spettacolo o un film divertente, rido molto con gli amici che amo quando sto con loro, mi diverto a far mille altre cose ma la corsa può essere catalogata fra questi tipi di divertimento? Mmm.
Onestamente no. Quando corro non mi diverto: faccio fatica, sento il corpo come non lo sento normalmente, sento ogni muscolo e ogni articolazione dire “Basta”. Eppure continuo a farlo, non essendo nemmeno masochista.
Ci deve essere dell’altro.
Forse non è proprio un divertimento
Magari mi sono sempre sbagliato a definirla una cosa divertente. La corsa dà soddisfazioni (ma anche frustrazioni, pur se in misura minore), forse gratifica ma non è che durante un allenamento o una gara sorridi o ridi come se quello fosse il più bel momento della tua vita. Lo fai, pensando che starai meglio dopo, facendoti la doccia o mangiando qualcosa. Vivendo.
Forse la parte divertente della corsa non è la corsa in sé ma si estende un po’ prima e un po’ oltre: prima, nell’attesa e nel sapere che dopo starai benissimo e dopo, quando, appunto, starai benissimo.
A questo punto potrei ritenermi soddisfatto: ho trovato esattamente dove si colloca la parte divertente della corsa e perché è corretto definirla una cosa, appunto, divertente. Non sta nel mentre lo fai ma nel prima, nel durante (in parte) e nel dopo: si tratta insomma di un’esperienza con una durata temporale superiore all’evento in sé, come dire che la corsa è più di una corsa. È una cosa grande.
Eppure c’era ancora qualcosa che non mi convinceva del tutto.
Il disagio
Poi un giorno ho sentito dire una cosa che mi ha fatto riflettere. Ascoltavo un podcast che riguardava tutt’altro ma chi parlava diceva questo: “Affrontare situazioni che mi mettevano a disagio mi ha insegnato a essere a mio agio nel disagio”.
Gli inglesi lo chiamarebbero “Mastering the art”, cioè avere la capacità di dominare qualcosa, di farla bene. Essere a proprio agio nel disagio mi sembra un’altra cosa grande, forse più grande dello stare bene dopo una corsa, perché non si limita a quello ma si estende a tutta la vita. Quando sai di poter sopportare situazioni di disagio senza perdere il controllo sai viverle anche con un certo agio.
Se ci pensi siamo categorici in molti ambiti: ci sono cose che ci piace fare e altre meno. Altre le detestiamo e ci faremmo cavare un dente del giudizio senza anestesia piuttosto che farle. Farle non è sottomissione ma più spesso è il risultato della capacità di accettarle, sopportarle e darle il giusto peso. Non parlo ovviamente di aspetti tragici o davvero complicati della nostra vita: intendo piuttosto quell’insieme di cose che non facciamo volentieri. Che ci mettono a disagio perché sono noiose o fastidiose in sé oppure che ci pongono di fronte ai nostri limiti. Oppure quelle cose che ci mettono, appunto, in una condizione di disagio psicologico o fisico.
Pensaci: se nella tua vita avessi solo avuto esperienze piacevoli non avresti mai avuto la possibilità di prepararti ad affrontare anche quelle meno piacevoli che, prima o poi, si presentano. Affrontarle ci permette di allenarci a gestirle e superarle.
La corsa è una specie di simulazione di una situazione non proprio gradevole: ci sono la fatica, il sudore, il dolore anche. E poi c’è la ricompensa, che arriva solo se hai sopportato e affrontato la sfida. Se hai terminato l’allenamento o la gara. Se l’hai fatto anche se non ne avevi voglia o la stanchezza era prepotente. Eri a disagio ma l’hai fatto lo stesso. La ricompensa è stata più grande dell’essere stato bene dopo: è stata quella di essere a tuo agio nel disagio. Hai capito di poterlo fare nella corsa e, quindi, di poterci riuscire anche in altre situazioni.
Perché amo correre? Perché mi ha insegnato come essere a mio agio anche nel disagio. Oh sì.