La notizia: gli ultimi record del mondo sono stati quasi tutti fatti con le Nike Vaporfly ai piedi. Parliamo soprattutto di due modelli: le Zoom Vaporfly 4% e le ZoomX Vaporfly Next%. Ultimo in ordine di tempo il record in maratona femminile stabilito da Brigid Kosgei a Chicago qualche mese fa fermando il cronometro a 2h14’04” e battendo quello imbattuto dal 2003 di Paula Radcliffe di più di un minuto. E il giorno prima, come se non bastasse, il suo connazionale Eliud Kipchoge era stato il primo uomo a correre la distanza di una maratona (non una maratona ufficiale) a Vienna in meno di due ore. Ai suoi piedi, inutile specificarlo, le Vaporfly 4%.
E ci si potrebbe fermare qui, pensando che stiamo comunque parlando di atleti stellari che anche con delle ciabatte ai piedi avrebbero segnato tempi incredibili. Ma la questione è un po’ più complessa e coinvolge molte più persone, e parliamo di centinaia di migliaia.
Ma procediamo con ordine.
4%
Una percentuale nel nome di una scarpa potrebbe sembrare una trovata di marketing e in effetti all’inizio venne interpretata così. 4% era infatti l’incremento di prestazioni promesso da queste scarpe nuovissime, lanciate nel 2016 in occasione del Breaking2, il primo tentativo di scendere sotto le due ore sui 42.196 metri.
Come era ottenuto? Innanzitutto con una mescola dell’intersuola chiamata Pebax incredibilmente reattiva che prometteva (evidentemente mantenendo) di restituire il 30% in più di energia spesa dal runner rispetto alle scarpe tradizionali. E poi c’era e c’è il piatto in carbonio affondato in quella mescola che aggiunge forza propulsiva caricandosi in fase di atterraggio e scaricando come una catapulta in fase di stacco.
Molti gridarono da subito al doping meccanico e all’ingiusto vantaggio che una soluzione del genere dava a chi le usava, la IAAF (cioè la International Association of Athletics Federations, l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica) disse che la scarpa non violava i regolamenti e quasi tutti, capito dove sarebbe andato il mercato, si misero a farne delle versioni proprie.
L’indagine
Un conto sono i risultati ottenuti dagli atleti di elite, un conto quelli che possiamo ottenere noi comuni mortali. Per consolidarli però ci sono dei dati raccolti in quantità notevoli e sono quelli forniti da una delle app più usate, ossia Strava. Come sa chi la usa, Strava registra i tempi, le percorrenze, i cambi di quota e anche – se il runner lo vuole – il modello di scarpe usato. È elaborando questi dati che si è riusciti a lavorare un campione molto significativo di più di un milione di profili che hanno corso dal 2014 in poi maratone o mezzemaratone, ottenendo dati così dettagliati da scendere al livello del tipo di scarpe. E quindi potendo tracciare delle ipotesi sostenute da dati sui benefici o meno che il tipo di scarpa ha dato a chi le indossava.
Senza addentrarci in grafici e numeri, i risultati più significativi che comparavano qualche decina di modelli di scarpe, i tempi ottenuti dagli stessi runner con diversi modelli (nel caso avessero quindi corso prima una gara con un modello per poi passare nelle successive alle Vaporfly) e altri parametri hanno fornito un quadro inequivocabile: chi le indossava ha corso più velocemente del 4-5% che con le scarpe precedenti e del 2-3% più veloce di runner che indossavano scarpe di punta ma di altri marchi.
Il fenomeno Nike Vaporfly del resto non può essere ignorato, anche perché dalla loro introduzione le usano il 41% dei runner scesi sotto le 3 ore in maratona, almeno fra quelli che usano Strava (che, comunque, ha un numero di utenti talmente vasto da poter essere considerato molto rappresentativo dell’universo running).
Un grafico in particolare è significativo: mostra la probabilità dei runner di fare il loro personal best con un dato modello. Anche in questo caso le Nike Vaporfly staccano la concorrenza di molti punti segnando una percentuale attorno al 70%.
La soluzione?
Si può storcere il naso di fronte a dati del genere o essere scettici. Eppure non si può trascurare che non vengono da Nike e che sono liberamente raccolti usando un’app che non c’entra niente con chi produce queste scarpe e che ha fornito i dati in maniera anonima solo per questioni statistiche.
Si potrebbe anche obiettare che non siamo macchine e che i tempi ottenuti anche nella stessa gara ma in anni diversi non significano molto: tante variabili possono falsare i dati, come il tempo atmosferico, la preparazione dei runner, il percorso ecc.
Un aspetto però è incontestabile, specie in termini statistici: il campione di dati è molto significativo e più è vasto, più l’errore o l’eccezione a cui un numero limitato di dati sarebbe sensibile tende a sparire. Se insomma siamo in 10 amici a correre più forte non formiamo un campione particolarmente rappresentativo; se oltre a noi 10 ce ne sono centinaia di migliaia di altri beh, il discorso cambia e sembra dire una cosa sola: con la soluzione tecnica messa a punto da Nike con le Vaporfly vai più veloce. Si tratta di una certa alchimia data dalla mescola dell’intersuola e dalla placca flessibile in carbonio e tanti altri produttori possono adottarla e già lo stanno facendo.
Questo significa solo una cosa: se non verranno vietate dalla IAAF almeno nelle competizioni ufficiali, in futuro gran parte delle scarpe saranno così. E soprattutto costeranno di meno dei 250 euro che ci vogliono oggi.
Meglio per tutti, no? Più veloci, spendendo il giusto.
(Via The New York Times)
Ah le riviste scientifiche peer reviewed…diciamoglielo che sono inutili, basta un articolo del NYTimes, tradotto, oltretutto male senza verificarne le fonti…
Perché tradotto male? Ti sarei grato se mi indicassi le imprecisioni in modo da porvi rimedio, grazie.