Ventotto delle 30 più importanti maratone al mondo sono state vinte almeno una volta da kenyani.
I detentori dei due record del mondo in maratona sono un uomo e una donna: Eliud Kipchoge ha conquistato quello degli uomini nell’ottobre del 2018 a Berlino fermando il cronometro su 2h01’39” mentre Brigid Kosgel ha conquistato quello femmiile a Chicago nell’ottobre 2019 migliorando e di molto il precedente di Paula Radcliffe e tagliando il traguardo in 2h14’04”.
C’è una cosa che accomuna questi due campioni, a parte il fatto che corrono come delle saette: sono entrambi kenyiani. Se si analizzano i dati delle competizioni degli ultimi decenni anzi si resta abalorditi: i kenyani hanno infatti conquistato qualsiasi trofeo e sono obettivamente e numericamente i più forti runner del mondo. Come è possibile? Che segreto hanno?
La città dei campioni
Iten è la città da cui vengono moltissimi di questi campioni. Sorge a circa 2130 metri di altitudine sull’altopiano della Rift Valley e si è guadagnata l’appellativo di “Città dei Campioni”. il fatto che da un luogo così definito del pianeta Terra venga una tale concentrazione di uomini e donne superveloci non ha mancato di attirare l’attenzione di studiosi e giornalisti. Cosa rende proprio quella città e quella regione la fabbrica perfetta dei campioni? Non esiste una risposta esaustiva e definitiva ma molti elementi concorrono a definire un quadro che, anche se solo parzialmente, può aiutare a capire cosa hanno di così speciale proprio quelle strade su cui corrono sin da piccoli i futuri detentori di record del mondo.
Il contesto

Partiamo proprio dalle strade. Non devi immaginare le strade asfaltate su cui corri ma degli sterrati, pieni di buche e ostacoli e polverosi. Le superfici su cui corrono i campioni kenyani sono allenanti già di per sé: non garantiscono di esprimere la massima velocità ma di certo allenano il corpo a sollecitazioni e cambi di ritmo difficili da gestire.
Ovviamente non si tratta solo di allenarsi in condizioni al limite. Anche la qualità e composizione dell’aria hanno importanza: allenarsi a più di 2000 metri con temperature variabili dai 10 ai 26°C è diverso che farlo sul livello del mare. La ridotta quantità di ossigeno infatti rende i corpi di questi atleti più capaci di ossigenare il sangue (e portare più ossigeno da bruciare ai muscoli, quindi più energia) quando “scendono a valle” a fare le gare, perché più bassa è l’altitudine, maggiore è la quantità di ossigeno.
Un altro elemento chiave pare essere quello della comunità. Nella città di Iten si allenano 5.000 runner e il giovedì alcuni di loro si allenano in gruppo. In 400. Esatto: il giovedì di ogni settimana l’allenamento di gruppo è abbastanza affollato ma per un buon motivo: loro sono tanti e il supporto che ottengono nel confrontarsi e aiutarsi a vicenda è insostituibile e impossibile da ottenere se si allenassero da soli.
L’inizio
Il primo atleta kenyano di respiro mondiale fu Kip Keino che vinse l’oro alle Olimpiadi del 1968 nei 1500 metri, nonostante soffrisse di un’infezione alla cistifellea. Anche nel suo paese d’origine, dove ovviamente correva sempre, era considerato un tipo un po’ strano perché a differenza di altri (là “correre” è un mezzo di trasporto, non uno sport) si allenava. Lo chiamavano “Il cercatore di vento” perché sembrava che corresse dietro alle correnti.
La motivazione
Un altro elemento che contribuisce a spiegare una tale concentrazione di campioni è la determinazione con cui si allenano. Nel caso specifico però si tratta di un motivo diverso da quello di molta parte di atleti provenienti da paesi ricchi. “I kenyani non corrono per qualcosa o non solo: corrono per sfuggire alla povertà”. Non ci sono molte altre fonti di reddito in queste regioni e di certo una delle più solide e promettenti è quella di vincere premi in denaro. Per poi resituirli alla comunità perché i campioni, tornati in patria, sono venerati come rockstar, come dice Malcolm Gladwell. Ma, a differenza delle rockstar che si godono i soldi per sé, resistuiscono il più possibile alla comunità quanto hanno ottenuto: finanziano scuole, comprano case ai propri familiari, fino ad arrivare a un bivio esistenziale. La pressione dell’essere campioni può trasformarsi in una condanna a continuare a vincere ma anche una potente motivazione a continuare a dare il massimo. Welsey Korir, vincitore della Boston Marathon nel 2012, si sente molto responsabilizzato a continuare a ottenere successi: tornato in patria ha finanziato la scuola per 300 bambini e sostiene 2000 agricoltori. Si può ben dire che non lo fa più per sé stesso ma perché ha preso un impegno con loro.
Un po’ di Italia
C’è anche un po’ del Belpaese in Kenya: risponde al nome di Renato Canova detto “Il mago”. Vive gran parte dell’anno in un hotel di Iten e allena 15 atleti kenyani. Lui stravolge un po’ la prospettiva secondo la quale i kenyani sarebbero i più forti del mondo: dice che “Non ci si dovrebbe chiedere perché loro sono così forti ma piuttosto perché noi europei siamo diventati così deboli“.
Abbiamo lo sport più fianziato e assistito del mondo (non proprio in Italia, ma insomma), campi per allenarci, coach, medici sportivi, alimentazioni controllatissime, macchine e computer. Eppure degli atleti di un paese poverissimo non assistiti minimamente dalla politica locale (a Iten c’è un solo campo di atletica in terra battuta), con pochissime se non alcuna risorsa economica riescono a eccellere. Come è possibile? Un altro allenatore europeo che ha creato tantissimi campioni kenyani, il missionario Brother O’Connor, dice che non sa bene che segreto abbiano i kenyani ma di certo la corsa non è una cosa che sentono come imposta: lo fanno istintivamente.
Qualche ombra
Purtroppo nemmeno il Kenya è stato risparmiato dagli scandali del doping. Tra il 2004 e il 2018 sono risultati positivi ai testi antidoping 138 atleti. La WADA (World Anti-Doping Agency) ha però stabilito che, per quanto numerosi, si è trattato di casi slegati fra di loro e non dipendenti da un “Metodo kenyano”. Non si tratta insomma di una tendenza istituzionallzzata e supportata dalla federazione nazionale ma piuttosto il risultato delle pressioni fortissime cui sono sottoposti certi atleti che fanno di tutto – anche cose illegali – pur di ottenere risultati. Ma le conseguenze a cui vanno incontro sono pesantissime: mentre per un atleta occidentale una squalifica significa non poter più gareggiare, per loro si traduce nel ritorno alla povertà e nel non potere più provvedere al sostentamento della famiglia e della comunità.
Ritorna ancora una volta il senso e la forza del gruppo: quello che aiuta nella difficoltà e al quale si torna per senso di appartenenza e per resistuire quanto è stato dato. I successi vanno condivisi, come l’allenamento del giovedì, insieme ad altri 400 runner che corrono, sperando un giorno di farcela.
(Via Business Insider – cover photo by Edskoch)