Questa non è la storia di un runner. Non so nemmeno se lui si alleni correndo ma di certo so che allenato lo è, moltissimo. Lui è Alex Honnold e c’è un bellissimo documentario che racconta una delle sue tante avventure, a oggi la più incredibile: quella della scalata del massiccio di granito di El Capitan nel parco dello Yosemite in free solo, cioè senza alcuna corda o protezione.
Quattro ore e due anni di preparazione
Un giorno di giugno di due anni fa Honnold ha scalato questo gigantesco totem di più di 900 metri di altezza in 3 ore e 56 minuti. Un risultato già notevole di per sé, se non fosse che ha completato l’ascensione, come dicevo, senza alcuna protezione. Per compiere un’impresa del genere – unica per livello di difficoltà e per velocità di esecuzione, Alex ha impiegato 2 anni di preparazione e ha fatto i conti con la reale possibilità di fallire. Solo che nel suo caso “fallimento” voleva dire una sola cosa: morte.
Un pazzo?
La reazione più istintiva che si può avere di fronte a un’impresa del genere è prevedibile: Alex è un pazzo che mette a repentaglio la sua vita per stabilire record assurdi. Ma ti invito a fare una riflessione più approfondita: innanzitutto mette a repentaglio la sua sola vita e inoltre non lo fa in maniera così leggera. Quello che gli vediamo fare su pareti che neanche Spider Man affronterebbe con serenità non è il risultato di un azzardo o almeno non del tutto. C’è moltissimo calcolo in quello che fa e soprattutto una conoscenza maniacale del luogo, delle difficoltà e dei rischi. Sembra strano dirlo, ma Alex usa moltissima consapevolezza scalando. Non affronta una scalata del genere perché c’è il sole e ha voglia di fare un record del mondo.
Centimetro dopo centimetro
Parlare di conoscenza “centimetro per centimetro” non è un’esagerazione. Honnold ha annotato su un taccuino tutti i dettagli di quella scalata: dove mettere mani e piedi, che gesti compiere e in che sequenza, quali passaggi richiedevano più attenzione, quali erano più insidiosi. In due anni ha scritto la coreografia di una danza che ha eseguito in verticale in tre ore e cinquantasei minuti una mattina di un giugno di 2 anni fa, dopo averla ripassata mentalmente nelle centinaia di giorni che hanno preceduto quella data.
Sei ancora convinto che sia un pazzo? Dal punto di vista della maggioranza di noi di certo lo è, ma forse Alex è solo uno che ha un concetto di limite un po’ diverso da quello comune. E quando ne raggiunge uno personale pensa sempre a come superarlo. Fa male a qualcuno? No.
Un documentario eccezionale
Free Solo” fa molta paura. Non è un film, non è finzione. Se qualcosa non va per il verso giusto, se lui sbaglia ad appoggiare anche per una sola volta un piede ad aspettarlo c’è solo la morte, dopo un volo di qualche centinaio di metri. Lo spettatore lo sa e se non bastasse, la scrittura del documentario glielo ricorda ossessivamente, oltre alle straordinarie immagini realizzate da una troupe di operatori che erano contemporaneamente fra i migliori climber in circolazione. E anche suoi amici, perché l’unico modo per affrontare un’impresa del genere senza che la concentrazione venisse turbata richiedeva che attorno a Honnold ci fossero persone che lo seguivano silenziosamente senza mai interferire. Quasi scomparendo, diventando montagna essi stessi.
Le tecniche di ripresa sono incredibili e credo abbiano contribuito in buona parte a meritargli un Oscar. Non solo per la qualità delle immagini ma anche per la capacità che hanno di calare l’osservatore in un punto di vista molto ravvicinato rispetto all’azione.
Che tipo di uomo è Alex?
Durante la visioen di “Free Solo” te lo chiedi spesso. Ti chiedi soprattutto se riesce a raggiungere quei risultati perché fa meditazione o perché crede a [inserire nome di divinità a caso]. Niente di tutto ciò. Ciò che stupisce di Honnold è la sua normalità.
Lui non fa meditazione, non è fedele di nessuna religione (o almeno non ne parla), non pratica mindfulness, non fa yoga, non ha niente di trascendentale. Non scala alla ricerca di Dio né perché guidato da una particolare visione interiore. Forse ce l’ha ma non la manifesta. Non descrive quello che fa come se fosse un santone in missione per conto di dio né fornisce alcuna illuminazione mistica sul senso che cerca di dare alle sue imprese.
Lui controlla. Lui contiene i rischi e calcola le variabili che potrebbero farlo morire. Poi quando inizia a scalare esegue una procedura.
Per molti versi è una macchina. Mentre scala lui è un uomo che ha soppresso la componente emotiva, focalizzandosi solo sull’esecuzione della procedura. Eppure resta umano perché, guardandolo da un altro punto di vista, quello che fa è perfettamente zen: in quei momenti vive nel puro presente e il senso dell’attimo, la percezione dell’importanza di quell’esatto momento è vividissima per Alex. Essere presente con il corpo e la mente in quel preciso momento è l’unica cosa che lo salva dal precipizio.
Honnold è un uomo che per aggiungere metri alle altezze che ha scalato con rischi immensi toglie il più possibile ogni distrazione, ogni particolare superfluo, ogni peso mentale o fisico.
Per salire in alto gli serve un fisico tirato come una corda pronta a scoccare la freccia, ma soprattutto la leggerezza di una mente che sfugge alla gravità di ogni pensiero. Solo così la sua magnifica coreografia zen può prendere vita di fronte agli occhi di chi non osa credere che sia possibile fare quello che lui è capace di fare.
PS: una nota di orgoglio sul finale. Alex Honnold ha compiuto l’impresa (e scala sempre) con un pezzo d’Italia ai piedi: gli scarpini che usa sono infatti i TC-Pro di La Sportiva ;)
(Tutte le immagini sono tratte dal trailer disponibile su YouTube)