Quando corri solo non sei mai solo

Correre da soli è solo una condizione fisica che mentalmente ci ricongiunge ai ricordi e alle persone care

Quando corro io vedo il mare. D’inverno o d’estate, spesso corro di sera, nel momento preciso in cui il sole tramonta dietro al Circeo. Io devo essere lì, quando l’ultimo traghetto fa la strada del ritorno e, guidato dal faro, lontano, laggiù verso Gaeta, raggiunge il porto. Il seguire cadenzato di questi accadimenti (insieme al regolare ritmo dei passi) rapisce la mia attenzione, e per un momento è il silenzio: è solo un assistere e partecipare con riconoscenza al fluire delle cose. Anche le onde, nei momenti di crisi, richiamano lo sguardo. Le studio con attenzione nel loro andirivieni, ogni singolo riflesso di luce rossastra e pagliuzze dorate, il loro mutare, ed il loro scomparire ciclicamente sul bagnasciuga.
Ho iniziato a correre a dodici anni, quando mio padre mi portava con sé (forse nella speranza, allora vana, che mi appassionassi). Ripresi a correre per curiosità, poi per necessità. Perché quando correvo rivedevo il mare di casa, rifacevo il percorso che mi ha visto cominciare timidamente insieme a lui e pian piano ci ha visto crescere insieme. Lo stesso tragitto che mi ha sorpresa per essere riuscita, sempre in ogni caso, a trovare le strategie più disparate per superare la noia, le crisi, i dolori fisici, le delusioni.

Il percorso è molto più che un tragitto misurabile in km. Può anche assumere significati personalissimi, quasi sacri per ognuno. Alla fine diventa un rito, che si sceglie di compiere in solitaria o in compagnia. Resta nella gestualità nascosta che ognuno tiene per sé, si recitano mantra, si cercano oggetti-guida che segnano un traguardo intermedio raggiunto, si ripercorrono luoghi d’infanzia, lungo la strada si ritrovano sguardi familiari, ci si sorride e ci si dà un cinque, e ci si sente un po’ supereroi.
Io quando corro vedo il mare anche quando il mare non c’è. Anche quando, la mattina presto d’inverno o negli afosi pomeriggi estivi, mi butto in strada. Intorno a me i palazzi della grande città, gli spazi costretti, poco vento e poco cielo, persone affaccendate dirette a lavoro, lo smog, casa lontana. Ho sempre pensato che la corsa fosse l’indicatore del mio equilibrio, un atto che inconsapevolmente compio e che dimostra (a chi sa riconoscerlo) che tutto va bene. Sicuramente è tuttora un momento di profonda comunicazione non verbale con mio padre. Poi, quasi inaspettatamente con gli anni, dopo tentativi vani e frustrazioni, mi sono accorta di poter correre anche dove prima mi sembrava un inferno e mi sentivo soffocare, e la data che scrivo a riempire la casella dell’allenamento della settimana non è più un atto dovuto.

Alla fine è la corsa che chiama me (come un categorico “VAI”) ogni volta che arriva il momento di riscoprire da sola la tenacia, la grinta, la passione per le cose della vita.
Io quando corro oggi raramente vedo il mare (e in ogni caso, quando capita, è sempre un piacere). Basta riscoprire quel movimento familiare, quella frase apparentemente senza senso che ti fa andare avanti, nonostante tutto. Si riscopre di saper osservare, di saper pensare che in fondo si è quelli di sempre, e di riuscire a capire che, se si fa bene attenzione, ovunque ci si trovi, non si è mai soli.

Flavia Guerrieri

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