Il significato di gareggiare contro te stesso

Gareggiare contro noi stessi è una sorta di suicidio, ma senza connotazioni cruente. È un'evoluzione ma è anche un gioco. E ce lo insegna David Foster Wallace.

Da quasi cinque anni parliamo di cosa sia la corsa e di come, nella realtà quotidiana dei fatti, sia una costante gara contro noi stessi. Ed è un pensiero di cui sono profondamente convinto: un continuo migliorarsi, evolversi e spingersi “un po’ più in là”.

Ma ieri sera leggevo Infinite Jest di David Foster Wallace e – guarda caso – si parlava proprio di questo. Stessa metafora, stesso concetto, solo lo sport è diverso perché nel libro era contestualizzato nel tennis ma non cambia nulla.

Fondamentalmente il protagonista della riflessione diceva che, quando giochi a tennis, dall’altra parte della rete non hai un avversario ma hai te stesso. E il tuo scopo è di sconfiggerlo. E successivamente partiva una riflessione, un pezzo di dialogo, che mi ha molto colpito. Eccolo:

– Ma allora lottare e sconfiggere l’io equivale a distruggersi? È come dire che la vita è pro morte? […] E allora quale sarebbe la differenza fra il tennis e il suicidio, la vita e la morte, il gioco e la sua fine?

– Non è diverso, tranne che si ha l’opportunità di giocare.

L’opportunità di giocare. È un concetto meraviglioso che spesso scordiamo. Infoiati nella foga disciplinata che ci porta a correre sempre più forte. Ogni volta che usciamo, stiamo giocando e, come in ogni gioco che si rispetti, c’è un vincitore e uno sconfitto che – in questo caso –  sono la stessa persona: noi.

Ogni volta che ci superiamo abbiamo ucciso quella “versione” di noi stessi per andare verso una migliore, più consapevole, più preparata. Ogni volta che non ci riusciamo siamo semplicemente sconfitti. E dobbiamo ripartire da dov’eravamo arrivati.

È normale essere delusi o gioire in base al risultato? Sì. È giusto farne un dramma? Assolutamente no.

Perché è un gioco e, grazie al cielo, abbiamo l’opportunità di giocare tutte le volte che vogliamo.

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