Il racconto di Halloween per i runner, con un runner come protagonista. Puoi leggerlo dove vuoi, come vuoi e scaricarlo in versione pdf o epub. Buona (spaventosa) lettura!
Paolo aveva sognato tanto la sua prima mezza maratona. Ogni giorno riusciva a ritagliarsi del tempo per andare a correre durante la pausa pranzo. Tutte le mattine, con la regolarità di un monaco, cercava di fare una ricca colazione, alternando e prediligendo carboidrati o proteine a seconda degli allenamenti ma senza dimenticare le voglie. Non dimenticava mai di mangiare una manciata di frutta secca a metà mattinata. Gli altri lo prendevano in giro. Perché se pioveva era assurdo che uscisse per ritornare inzuppato fradicio. Perché se c’era troppo sole era pazzesco che tornasse sudato e rosso come un peperone. Perché se c’era troppo vento aveva i capelli come se fosse stato sotto il casco di un parrucchiere e lo avesse cotonato un coiffeur catapultato dagli anni ottanta ai giorni nostri – oppure semplicemente usando un petardo al posto di phon e spazzola.
Paolo sognava la maratona di New York, quello sì che sarebbe stato il raggiungimento di qualcosa di veramente grande. Prima di farlo però, con molta volontà aveva affrontato le prime gare non competitive per poi arrivare alla dieci chilometri migliorando sempre di più sia in tempo che in distanza. A Paolo però non interessavano solo i numeri ma anche gli incontri, i legami che si erano creati, i numeri di telefono racimolati; quelli che col tempo avevano fatto crescere l’autostima nei confronti degli altri e dell’amicizia stessa. Quel tipo di collante che solo chi condivide la stessa passione può trasmettere e ricordare.
Il giorno della sua prima mezza maratona era arrivato. Il pettorale era stato ritirato. La notte prima non era riuscito a chiudere occhio per l’emozione e la gioia. Solo nel bed and breakfast che lo ospitava, perché aveva deciso di prendere anche un aereo per essere lì, pensava a quando l’unica corsa che faceva era verso il distributore automatico all’entrata del suo ufficio. Trangugiava velocemente una merendina e innaffiava con una bibita gasata. Pensava allo strazio di non sentirsi più l’appesantito e affaticato ventenne di una volta. Bene con se stesso e con gli altri. Adesso era lì, attivo, vivo che fissava il soffitto nella penombra della stanza, aspettando che la sveglia suonasse.
Quando partecipi a un grande evento lontano da casa devi accontentarti delle sistemazioni che trovi. Gli albergatori alzano i prezzi e non trovi una camera a un prezzo decente a meno di cercarla in periferia, per poi magari impiegarci ore per raggiungere la partenza. Ma Paolo era stato fortunato: un piccolo Bed and Breakfast nelle strette vie del centro cittadino con poche camere e perfetto per chi ami viaggiare e scoprire i misteri della nostra città. Così recitava la descrizione sul sito web ma questo a Paolo non interessava, lui doveva solo correre e, stando a Google Map, avrebbe dormito a meno di un chilometro dalla partenza della “sua” mezza.
La stanza non era un esempio di pulizia e luminosità anzi, a dirla tutta, c’era un fastidioso metallico che la pervadeva e la tinta ai muri stava ingiallendo ma – chissenefrega – ci avrebbe dormito una notte e poi “mai più lì”.
“Devo cercare di non farmi prendere dalla foga dello sparo e fare i miei tempi, il mio ritmo. Me la voglio godere e non arrivare alla fine con così tanto acido lattico che, se mi strizzi i muscoli, puoi farci yogurt. Parto piano, anche sopra ai 6/Km, non mi interessa, tanto la partenza è sempre lenta con tutta la gente che ci sarà”, ripassava il percorso, Paolo, sempre fissando il soffitto. Le curve, i ristori, gli spugnaggi. L’acqua, non doveva trascurare di idratarsi.
PLINK.
In quell’esatto momento sentì sulla fronte il bruciore del freddo di una goccia d’acqua. Una macchia sul soffitto. Paolo è sicuro di due cose: la prima è che quella macchia era appena comparsa, la seconda che lì non sarebbe mai più tornato.
La macchia si ingrandiva molto velocemente, troppo, e lo faceva in maniera strana. All’improvviso a Paolo sembrò che quella macchia stesse disegnando un volto. E diventava sempre più chiaro che era il viso di una donna. E lo stava guardando.
Immobilizzato dal terrore. Congelato dal panico. Paolo non riusciva a muovere un muscolo e, all’improvviso, tutto iniziò a roteare, a dissolversi, a sciogliersi come in un quadro di Dalì.
IL BUIO.
Come svegliarsi con la musica heavy metal a tutto volume nelle orecchie. Ecco qual era la sensazione che più si avvicinava al disorientamento di Paolo quando cercò di aprire gli occhi. Da dentro, le sue palpebre erano rosa – incollate – per la fortissima luce che le colpiva. Prima una fessura, poi un po’ di più e – improvviso – l’orribile urlo di una folla indemoniata che congelava il sangue. Paolo vedeva un muro di buio tutt’attorno a sé. Solo lui era illuminato da una luce fortissima.
Appoggiò una mano alla fronte per attenuare la luce gelida che lo colpiva e riuscì a scorgere migliaia di occhi infuocati attorno a sé.
“Un’arena, sono in un’arena. Fermo, Paolo, cosa sta succedendo? Eri a letto, dormivi, mancava poco alla sveglia e adesso dove sei? La macchia! Il viso! Cosa sta succedendo?”. Mentre pronunciava mentalmente quelle parole sentì una presenza alla sua sinistra. La donna della camera si era avvicinata a lui e finalmente poteva vederla in tutta la sua bellezza. Il mento leggermente sollevato e l’espressione fiera rendevano duri i lineamenti gentili del suo volto spaventato. Per un attimo Paolo era uscito di nuovo dalla realtà, ipnotizzato dagli occhi d’ambra, dorati e intensi, della sconosciuta al suo fianco. Ma, accidenti, dov’era finito?
Era al centro esatto di un’arena urlante, piena di esseri. Non sapeva descriverli se non così. Esistevano, erano in qualche modo “vivi”, ma non avevano nulla di umano. Avevano l’aspetto delle ombre che vedi con la coda degli occhi: striscianti, indefiniti e oscuri. Grotteschi, si muovevano con le braccia al cielo come gli omini gonfiabili degli autoconcessionari americani, ma terrificanti nella stessa misura del clown che esce dal tombino su IT. Ombre, questa la loro descrizione più vicina alla realtà.
“Hai scelto il tuo campione!”
Paolo percepì la violenza negli occhi di un’essere diverso dagli altri, immerso nel buio, fermo di fronte a lui. Era una donna, metà ombra e metà essere umano. Ma i suoi occhi erano di un color azzurro così chiaro da sembrare vuoti. Nonostante questo trasmettevano il gelo del vento notturno di febbraio.
“La sfida è aperta – disse la donna – e lotterete per la vostra libertà. Ma, se uscirete sconfitti, le vostre anime saranno mie per sempre e diventerete altre due ombre nel mio regno. A voi la scelta della sfida!”.
Paolo prese tutte le sue riserve di coraggio e urlò, con tutta la voce che aveva, la prima cosa che gli passò per la mente: “IO VOGLIO CORRERE UNA MARATONA!”.
La ragazza al suo fianco lo guardò e gli sorrise. Quel sorriso, di una sconosciuta, gli aprì il cuore, sentì tutta la sua fiducia. Aveva paura, chi non ce l’avrebbe, ma quel sorriso fece esplodere le energie di Paolo. “Devo correre? Bene, non so fare altro. Lo farò fino in fondo”.
Tutto divenne buio, nuovamente. Davanti a sé aveva un interminabile striscia di fuoco e, al suo fianco, un’ombra, più alta delle altre: il suo avversario.
Si sentì uno sparo e, istintivamente, Paolo iniziò a correre. Un passo dopo l’altro e, a ogni respiro, vedeva il suo antagonista guadagnare terreno allontanandosi sempre di più.
Passo. Inspira. Passo. Passo. Espira.
“Tieni il tuo ritmo, Paolo. Tieni il tuo maledetto ritmo!”. Non sapeva che altro fare se non cercare di mantenere il ritmo più alto che poteva, facendo respirare ogni fibra del suo corpo per evitare di raggiungere la soglia del lattato: quel terribile momento in cui i muscoli cominciano a indurirsi e smettono di rispondere.
Il buio era tutto intorno e iniziava a entrare anche dentro di lui. Solo. Si sentiva solo. L’unica cosa che poteva udire era il rumore che i suoi piedi facevano al contatto con il terreno. Non c’era pubblico festante, nessun panorama da guardare, nulla. Solo paura e tanto, tanto freddo.
Sentiva i metri scorrere sotto ai suoi passi, ne mancavano ancora tanti, ma sempre uno in meno di quanto non fosse un’istante prima. E quei metri diventavano decine, centinaia, chilometri.
La luce un po’ alla volta stava aumentando, Paolo si sentiva come se stesse salendo dal buio più profondo verso un limbo. Un luogo senza fiducia, dritta e interminabile la strada si intravedeva davanti a lui. Nessun riferimento mentale, nulla, solo l’orizzonte da correre. E una luce che assomigliava al crepuscolo di mezzogiorno quando sei vicino al Polo Nord durante il solstizio d’inverno.
“Non può essere così, io volevo solo correre, volevo andare a New York. Questo è un incubo”. La voglia di mollare partiva dai suoi piedi, si amplificava nelle gambe e arrivava al cuore come il ruggito di un leone, portando il gelo della paura.
La luce diventava sempre più forte, il terreno si ammorbidiva rendendo i suoi passi ancora più difficili e – proprio nel momento in cui stava per fermarsi, esausto – rivide per un istante nella sua mente gli occhi della ragazza. Nemmeno sapeva il suo nome ma – in quell’esatto momento – capì di non essere solo. Capì che, qualunque cosa fosse successa, i suoi piedi non avrebbero smesso di spingere un passo davanti all’altro. Paolo era lì per correre e non avrebbe smesso finché non fosse svanita l’ultima energia dal suo corpo.
I minuti passavano senza che se ne rendesse conto e il mantra che ripeteva – con la voce o con la mente – era “un passo ancora”. Come una preghiera buddista ripetuta allo sfinimento ma nella quale le parole non perdono mai di significato. Gli occhi chiusi, tutto focalizzato nell’unico compito che aveva in quel momento: correre.
Improvviso come un tuono d’estate, Paolo sentì nuovamente l’urlo degli esseri che lo aveva accolto all’inizio di quello che, ormai, sembrava un interminabile incubo.
L’ARRIVO.
Lì, a pochi metri da lui, l’arrivo. La fine della sua sofferenza e – dato che aveva perso – l’inizio della sua dannazione. Esausto, tagliò il traguardo, una linea rossa disegnata sulla terra rotta dalla siccità, così asciutta che rifletteva la luce del sole. Alzò lo sguardo e vide gli occhi di Lei sorridere. E la stessa voce terrificante che prima lo aveva sfidato urlò.
“Sei il primo che riesce a sconfiggermi. Tu sia maledetto!”
Solo in quel momento Paolo capì che lui aveva ottenuto la vittoria vera, quella della maratona: non darsi mai per vinto, sconfiggere le proprie paure e i propri limiti. E lui ce l’aveva fatta.
Nemmeno il tempo di concludere il pensiero che si ritrovò in mezzo a canotte di tutti i colori, esseri umani, finalmente. Il portale della partenza della “sua” mezza maratona. Si voltò un istante e rivide per un attimo gli occhi color ambra che ormai erano tatuati nella sua memoria. Per un attimo perché…
“3, 2, 1, VIA!”