Riceviamo questo contributo da una nostra affezionata lettrice, abbastanza runner, di una località indefinita e sufficientemente misteriosa da non voler dare alcun riferimento personale che siamo molto felici di pubblicare. Dà una visione della corsa molto femminile e che ci piace molto. E siamo sicuri piacerà anche a te.
“Devi iniziare a volerti bene!” mi ripetevano.
Eppure io ero in ”autodistruzione-mode-ON”. Non vedevo la luce in fondo al tunnel. Che poi, ‘sto tunnel, non sapevo nemmeno come attraversarlo. Ero ancora all’ingresso, indecisa se prendere l’auto, quella diesel o quella a metano (chissà quanti chilometri sono, se devo fare il pieno a metà strada oppure no), la bicicletta, il cavallo o andare a piedi (ma poi che scarpe indosserò, il decolletè, la sneakers, o quella da running?).
Ecco. Ero proprio a questo punto. Fissavo il file Excel fitto di numeri che fino a poco tempo fa interpretavo e scrivevo agevolmente, come fosse una nebulosa indecifrabile. Sospiro – inserisco un numero – sospiro – mi alzo – caffè – un altro numero. Avevo il blocco dello scrittore applicato al bilancio, nel senso che a scrivere ci riuscivo benissimo ma a far di conto proprio no. Eppure dovevo. Il badge e quelle otto ore che mi separavano dalla libertà erano interminabili.
“Spengo la TV
e la farfalla appesa cade giù
ah, succede anche a me
è uno dei miei limiti.
Io per un niente vado giù
se ci penso mi da i brividi.
Me lo dicevi anche tu
dicevi tu …”
“Dobbiamo analizzare la profittabilità del nuovo investimento, e solo tramite questo benchmark tra l’AS IS e il TO BE avremo in output una wayout per trovare una nuova reason to believe”. A Milano si dice così, eppure non sarebbe stato più semplice spiegare che bisognava fare un’analisi dettagliata delle varie opportunità?
Sospiro – inserisco un numero – sospiro – mi alzo – caffè – un altro numero. Niente da fare, quelle parole suonavano inutili. E ancora: “Devi iniziare a volerti bene!”. Ma il blocco del ragioniere era più forte. Cosa vuol dire “volersi bene”?
“Ma non pensarmi più,
ti ho detto di mirare
L’amore spacca il cuore.
Spara! Spara! Spara, Amore!
Tu non pensarci più,
che cosa vuoi aspettare?
Spara! Spara! Spara, dritto qui …”
Ruotava tutto intorno a quelle due paroline magiche, “volersi” e “bene”, ma l’unico effetto che producevano era una grande rabbia. Aprivo quel maledetto cassetto della scrivania colmo di cracker, biscotti, caramelle e trangugiavo, senza avere realmente fame, il contenuto del primo pacchetto che trovavo, mentre cercavo di decifrare numeri illeggibili di cui improvvisamente non vedevo alcun senso. Riempivo fogli di appunti insignificanti, in fila ad altri millemila propositi. Dimenticare le persone sbagliate, regalare la mia assenza a chi non apprezzava la mia presenza, dare la mia presenza a qualcuno che la meritasse (ma chi?), fare la spesa, stendere i panni che sono nella lavatrice da tre giorni. Tutto aveva perso significato. Che il pantalone bianco da 200 euro si fosse macchiato nel lavaggio a 90° con le lenzuola rosse mi lasciava indifferente come la necessità di eliminare dalla mia vita le presenze (o meglio, assenze) inutili. Che consumassi scatole di Maalox e Valpinax era poco importante, come la ricrescita dello smalto semipermanente. Il Silk-epil giaceva abbandonato in un angolo polveroso del bagno, e forse, nello stesso angolo, ci avevo lasciato anche il mio cuore. Lì, tra i barattoli del lucidante per capelli e lo scrub di sei anni fa (che mai avrei buttato), tra il bagnoschiuma al muschio bianco (che non usavo più, avendo scoperto che l’aroma fosse prodotta dalla spremitura delle ghiandole dello zibetto) e quello smalto arancione metallizzato che ormai solo una prostituta polacca poteva indossare.
Mi circondavo di gente che sceglieva i propri pretendenti come il formato di pasta migliore per il sugo ai peperoni. “Saranno meglio i conchiglioni o le tagliatelle? Gli spaghetti li tengo di riserva”. E mi interrogavo incredula su come si potesse fare così anche con gli uomini. “Sarà meglio Giulio o Federico? Stefano lo tengo di riserva”. Ma Stefano, Giulio o Federico non erano un sugo e a me non importava che stessero bene con la carbonara. A me importava vivere LA persona che avevo scelto. Respirare il suo profumo, dimenticare i suoi difetti e aver voglia di condividere con lui la mia vita. Un progetto comune, che fosse stato una mostra di Van Gogh da visitare o una passeggiata, io con lui volevo CONDIVIDERE. Sembrava così facile a dirlo, impossibile a farsi. Avevo una laurea in “Incapacità nella gestione delle relazioni interpersonali” e un ph.D. in “Scienze dell’incasinamento applicato ai sentimenti”. Ma non potevo riportarli nel curriculum, erano utili solo a macchiare il cuscino con il mascara prima di addormentarmi.
Disquisivo con gli amici dei comportamenti di un rabberciato “Mr. Big”. Lui rappresentava la cassaintegrazione dell’amore. Ne parlavamo davanti ad un hamburger decongelato o una cena home made messicana-poco-piccante con Silvio, Eleonora e Sandro. Giungendo a conclusioni apocalittiche quanto realistiche: “La cassaintegrazione dell’amore è quando non hai uno perfetto e ti accontenti di “questo” che ti è capitato.” Affermava Silvio. “Tecnicamente il cassaintegrato dovrebbe essere chi si trova un’amante cessa perché gli manca qualcosa nella ragazza”, ribatteva Eleonora. Ma io non ero l’amante cessa di nessuno, o forse inconsapevolmente lo ero diventata, mentre sognavo una carrozza bianca da cui scendeva il mio principe azzurro. O indaco. Di che tonalità Pantone fosse realmente non lo avevo mica capito.
“So chi sono io
anche se non ho letto Freud.
So come sono fatto io
ma non riesco a sciogliermi
ed è per questo che son qui
e tu lontana dei chilometri
che dormirai con chi sa chi
adesso lì …”
A corollario di una situazione precaria sotto ogni punto di vista, la squadra di basket con cui mi dilettavo scricchiolava come un tavolo dell’800. Come tutte le mie certezze. Anzi, quelle le avevo già frantumate. Un campionato qualsiasi, “scapoli contro ammogliati”, ma perlomeno serviva a non chiudermi in casa tutte le sere.
Quel lunedì, però, con uno sforzo immane ripresi le mie vecchie Mizuno. Ogni taglio, ogni macchia, ogni piega di quelle scarpe era un ricordo di un’emozione vissuta percorrendo chissà quale chilometro di chissà quale corsa.
Perché sì, correvo.
E non mi riusciva poi così male. Ero in grado di stare con me stessa per cinque, dieci, quindici chilometri senza soffrire, ascoltando solo il rumore dei miei passi e il mio respiro affannoso. E alla fine di quegli allenamenti mi sentivo felice. Magari era solo un fatto di chimica, di adrenalina. Magari era la soddisfazione di essere riuscita ogni giorno a fare qualche metro in più o qualche minuto in meno.
“Devi iniziare a volerti bene!”
Il destino sa solo nascondersi o svelarsi, vedi per un attimo una luce accecante e poi devi riuscire a interpretarla. Indossai nuovamente quelle scarpe, i leggings, la felpa. Non saranno stati dieci, ma forse nemmeno cinque chilometri, quelli che percorsi affannosamente un lunedì sera umido e freddo di settembre. Ma erano i sintomi che avrei attraversato quel tunnel per uscirne finalmente. Accompagnata dal rumore del mare, dall’odore della pioggia e dell’aria fredda che prepotente entrava nei miei polmoni. Ogni momento, da quella sera, sarebbe stato il MIO momento.
Listening to: Spaccacuore, Samuele Bersani
(credits immagine principale: ©iStockphoto.com/clark_fang)