È da un po’ che sto provando a partire col racconto della maratona di Boston di quest’anno ma devo ammettere che faccio fatica. È difficile riuscire a condensare con delle parole efficaci l’esperienza vissuta. Mentre ci penso, però, ho realizzato che quello che più mi è rimasto non è tanto la corsa in se ma piuttosto l’evento cui ho preso parte. Ho realizzato che da Boston mi porto a casa un’esperienza condivisa con altri 35 mila runner, con la città di Boston e con i 500 mila (sì, esatto: 500 mila) calorosissimi spettatori incontrati lungo il percorso. È un racconto piuttosto lungo, del resto è pur sempre una maratona.
Il tutto è partito un anno fa
Sappiamo tutti che cosa accadde l’anno scorso a Boston. La maratona, gli attentati e poi la solidarietà ai feriti ed al mondo del running. Quel che è venuto da fare a me, oltre a correre nell’immediato per dimostrare (forse più a me stesso che ad altri) che non c’era da farsi soffocare dalla paura, è stato decidere di tornare a correre quella maratona l’anno successivo. Così, una volta tornato a casa, ho comunicato a tutti gli amici di corsa che una maratona in programma per il 2014 io già ce l’avevo: Boston.
Ed ecco dunque che, il terzo lunedi di aprile, nel giorno del Patriot’s Day, mi ritrovo ad un anno di distanza ad Hopkinton, alla partenza della maratona di Boston numero 118. Con me Anne ed altri 6 amici venuti dall’Italia.
Quest’anno è diverso, è ancora più bello
Sin dal pregara ci si accorge che l’aria che si respira è particolare. L’organizzazione della corsa è come al solito perfetta. Un ingranaggio oliato da 118 anni di esperienza. I bus gialli caricano i runners e partono tutti assieme verso Hopkinton. Le auto della polizia ci scortano e si assicurano che il convoglio rimanga tutto unito. Una volta giunti alla partenza c’è di tutto, un enorme spazio dedicato ai maratoneti con caffè caldo, gel assortiti, barrette, qualche bagel e, soprattutto, una fila interminabile di bagni chimici. Che quando hai tanto tempo da aspettare prima che parta la gara il bagno, molto spesso, diventa il tuo migliore amico.
Passata l’attesa giunge il momento di entrare nella gabbia per la partenza. Ci si incammina lungo la via e ancora prima di affrontare il percorso c’è già della gente che incita i runners con cartelli e strette di mano. Ci sono tavolini che offrono acqua, sali, cerotti e quant’altro. Così, spontanea iniziativa di privati cittadini. Una troupe della tv locale prova a intervistarmi, protesto in dialetto veneto e la giornalista traduce in diretta, sarei curioso di sapere che cosa abbia detto ma credo non lo saprò mai.
Arrivo alla mia gabbia e ormai manca davvero poco. Parte la presentazione dei top runners, la gente si scalda quando arrivano i due americani (Ryan Hall e Meb Keflezighi che poi vincerà la gara). Segue un sentitissimo minuto di silenzio in ricordo delle vittime dello scorso anno, quindi inno americano sulle ultime note del quale passano quattro elicotteri schierati in formazione sopra alle nostre teste.
Non sono un fanatico di queste cose ma non nascondo di aver avuto una pelle d’oca alta svariati centimetri.
Un concentrato di emozioni altissime e ancora la corsa non è partita!
Ore 10, il via
Alle 10 in punto finalmente si parte, colpo di cannone ed il serpentone si muove. Il sole picchia e sarà una giornata calda. Sono vestito troppo ma compenso col fatto che sono allenato troppo poco, quindi non ho alcuna velleità di tempo. Quel che conta oggi è esserci e portare a casa la medaglia.
Ricordo il percorso dallo scorso anno. È un tracciato nervosissimo, si parte in discesa ma poi si incontrano comunque altri strappetti in salita. La strada non è mai pianeggiante. E comunque il percorso non lo vedo, corro in mezzo ad una folla di gente e mi concentro sul pubblico. Dopo soli 10 km ho i calli alle mani per tutti i “cinque” dati al pubblico. È una festa, dal primo all’ultimo km.
Il Wellesley college, la crisi e l’Heartbreak Hill
Ricordo bene il percorso, dicevo, e so bene che a metà gara c’è il passaggio al Wellesley college. Un college femminile dove le ragazze si offrono di baciare i maratoneti che passano di lì.
Andate voi che volete fare il personal best a Boston, io me la prendo comoda è vengo premiato per 4 volte raddoppiando così il bottino collezionato lo scorso anno.
Riparto bello tronfio ma poco dopo mi rendo conto che il poco allenamento ed il caldo di giornata mi stanno presentando il conto. Sono al km 25 dove cominciano i 10 km più tosti del percorso e mi rendo conto di aver esaurito le energie. Respiro, rallento, rallento ancora e poi cammino. Un po’. Poi riprendo, poi cammino di nuovo. Vabbeh, mi dico, oggi va così, cerchiamo di portare a casa la pellaccia e di guadagnare anche stavolta la medaglia. È dura ma conto di farcela in qualche modo.
Al km 27 trovo un ristoro con i gel energetici. Non sono solito prenderli ma visto come sto ci provo, sono pure aggratis!
Piglio il primo e lo ingoio famelico, gusto: cacao. Ne prendo subito un altro e ripeto l’operazione, questa volta il gusto cambia: vaniglia! Visto il sapore dei precedenti sono incerto se prendere o meno il terzo, alla fine mi dico che peggio di così non può mai andare ma mi sbaglio, perchè al peggio non c’è mai fine, e ricorderò il gel al mirtillo come il punto più triste della mia storia podistica.
Nonostante la degustazione poco felice, i gel mi danno un minimo di apporto energetico e posso provare a ripartire di corsa. Ormai manca poco al punto saliente della gara, la famigerata Heartbreak Hill. Un punto che ha fatto storia perché è quello in cui i top runner attaccano ed anche l’ultima asperità prima del traguardo (che comunque dista altri 10 km da lì). Corricchio meglio che posso e saluto con un sorriso il cartello “Say goodbye to Heartbreak”.
Gli ultimi 10km, i crampi e l’arrivo
A questo punto mancano “solo” 10 km. Il peggio è alle spalle, sento che nonostante il caldo, le difficoltà e il gel al mirtillo ormai il più è fatto. E invece no! Perchè la maratona è subdola e, come dice un vecchio adagio, comincia a partire dal trentesimo km.
Infatti, poco oltre, verso il km 35 mi ritrovo a ridere come uno scemo. Ma non per qualcosa di divertente, no no, rido per i crampi ai quadricipiti. Delle fitte talmente forti che rido per la disperazione.
Ovviamente sono fermo a bordo strada e il pubblico, che è meraviglioso e tutto, è li che mi incita e mi chiede se può aiutarmi in qualche modo. Tanta bellezza, unita ad un po’ di automassaggio, mi fa passare i crampi e dopo una sosta di 5 minuti posso ripartire.
Trotterello cauto fino ad un km dall’arrivo e qui mi lascio andare. Imposto nuovamente un’andatura di corsa perlomeno decente e mi godo tutto il finale. Il pubblico è raddoppiato rispetto allo scorso anno. C’è una folla oceanica e, come feci lo scorso anno, mi metto sul lato sinistro, quello delle esplosioni, e do il cinque a tutto il rettilineo d’arrivo.
Taglio il traguardo con le braccia al cielo, esultante come se l’avessi vinta quella maratona. Taglio il traguardo e cerco la mia medaglia. La voglio tantissimo, per quello che è stata la maratona dello scorso anno e per quel che è significato ritornarci quest’anno. Per la fatica vissuta in quei 42 km e per le difficoltà affrontate e superate.
E poi la voglio per sfoggiarla in giro, per sentirmi fare i complimenti dalla gente per strada e chi se ne frega del tempo. Ho la mia medaglia e posso andare a festeggiare da maratoneta che ha concluso la Boston Marathon, mai come questa volta, la maratona più bella che c’è.
complimenti! ma l’avete fatta tutti proprio la maratona di boston quest’anno! (io non rientrero’ mai nei tempi di qualificazione :( )