Nella gioia e nel dolore, “Open” di Andre Agassi

Dice il proverbio giapponese “Sette volte cadi e otto volte ti rialzi“. Non conta fallire, conta quanto ci metti a riprenderti dal fallimento. Conta la fiducia che hai in te e nella tua capacità di farcela, pur sapendo che ancora fallirai, ma che ancora sarai capace di rialzarti.

Cadere sul campo, cadere nella vita. Rialzarsi, sempre.

Andre Agassi è caduto decine di volte, non solo sette. Professionalmente, umanamente: ma è sempre rinato. Quando la critica sportiva lo dava per finito, lui la smentiva. Sempre, fino all’inevitabile ritiro agli US Open del 2006 a 36 anni. Dopo aver vinto otto tornei del grande Slam ed essere stato l’unico tennista al mondo, al tempo, ad aver vinto un Golden Slam, ovvero i quattro tornei del Grande Slam e l’oro olimpico (assieme a quella che sarebbe diventata la sua compagna di vita, Steffi Graf).

Non ha avuto la costanza di altri suo storici avversari come Pete Sampras (avversario, non nemico. È straordinario e istruttivo leggere con quanto rispetto lui ne parli, come di un avversario con cui ha più perso che vinto, ma verso il quale ha sempre avuto, ricambiato, rispetto): ha avuto una carriera colma di successi ineguagliati e di sconfitte clamorose. Eppure la sua grandezza non è solo sportiva: non è misurabile nei successi, ma nella distanza che separa gli insuccessi dai trionfi. Sono straordinarie le riprese, le rinascite, gli abissi più profondi e la caparbietà nel risalirli. L’umanità, infine.
Una autobiografia – specie quella di un tennista fra i più talentuosi e vincenti della storia – poteva essere una marcia trionfale che lievemente glissava sui fallimenti sportivi e umani (in fondo si viene ricordati per le vittorie, non per le sconfitte, no? Beh, non solo). Invece è un umano e pietoso racconto di una vita dedicata ad uno sport che odiava, ma che non riusciva a non praticare. Perché il tennis era l’unica cosa che sapeva fare, era il suo baricentro, la sua identità. Da quello fuggiva per poi ritornarvi, come alla propria casa, perché quello lo definiva: Andre Agassi, giocatore di tennis.

Ma la vita privata è così intrecciata a quella sportiva da non esserne separabile. Così gli insuccessi sono spesso legati agli stati d’animo che viveva fuori dal campo, e i successi alla leggerezza con cui riusciva a vivere in molti momenti.

Non sono cambiato, sono diventato quello che dovevo essere

Open è un romanzo di formazione, nella più classica definizione letteraria: Agassi è un bambino prodigio allevato dal padre e da questo plasmato – spesso forzatamente, fino ad odiare il tennis – che inizia a vincere fin da giovanissimo, per poi perdersi, ma solo per ritrovarsi poco oltre, e vincere nuovamente, e perdersi ancora. Costante è solo la sua ricerca, l’introspezione maniacale di cui è capace. La profondità della sua analisi, unica vera tensione che non cede mai, che è sempre spietata e continua.
Alterne sono le fortune, grandi le sconfitte, per arrivare ad una saggezza senile (anche se di senilità sportiva si tratta, quindi anagraficamente anticipata) che lo porta a fondare una scuola per ragazzi meno fortunati, lui, che da scuola era fuggito giovanissimo, rifiutando ogni autorità e imposizione, viste evidentemente come una proiezione del padre impositivo e opprimente.

Agassi giunge alla fine della sua carriera e dopo pochi anni scrive con il premio Pulitzer J.R. Moehringer Open: lo ringrazia nel finale e gli chiede anche di firmare il libro, riconoscendogli uno status ben più elevato di quello di ghost writer.
Ma lo stile è suo: J.R. Moehringer lo lima e lo contiene, gli dà la maniera letteraria e il mestiere dello scrivere, ma la voce è inequivocabilmente quella di Agassi: nel raccontare il lato umano del lavoro del campione, la depressione, il vuoto, la redenzione, la gloria. Ma non le parti separate, quanto piuttosto il lento lavorio di questi estremi opposti: conta come si conciliano e se si conciliano, perché quando giungono ad un’armonia e ad un equilibrio, là accade il miracolo, la rivelazione, la gloria.

Dimentica il bene, ricordati il male.

Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta“.
E una vittoria non sarebbe tanto piacevole se non la si potesse misurare con la sua distanza dalla sconfitta. L’armonia cui giungono questi stati d’animo opposti e la capacità di accettare la sofferenza come una forma di conoscenza lungo la strada per la saggezza sono le sette cadute e le otto riprese. Moltiplicate per dieci cento mille e per il moltiplicatore che abbastanza approssimativamente descrive una carriera e una vita così ostinatamente vissute e così perfettamente raccontate.
Open, Andre Agassi

La mia storia

2011

Stile libero Extra
pp. 504
€ 20,00
ISBN 9788806207267
Traduzione di Giuliana Lupi

 

 

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